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La Corte Costituzionale

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ROMA – In Italia è in condizione di dissesto, o pre-dissesto, finanziario un Comune su 8, precisamente 1.083 su un totale di 8.389: una realtà sulla quale rischia di avere un impatto significativo la sentenza della Corte Costituzionale n. 80 del 29 aprile scorso che ha definito incostituzionali le norme che hanno consentito di spalmare a oltranza (fino a 30 anni) i debiti degli enti locali in difficoltà finanziarie, stabilendo un obbligo di ripiano ravvicinato.

A fornire la fotografia degli enti locali italiani in difficoltà finanziarie è il rapporto elaborato da Csel (Centro studi enti locali) e Adnkronos, dal quale emerge, a livello regionale, la netta prevalenza dei comuni calabresi, seguiti da quelli siciliani e campani.

La sentenza rischia di scatenare un vero e proprio putiferio. Gli enti che avevano fatto ricorso a quelle somme per onorare i propri debiti commerciali, si trovano oggi a misurarsi con un peggioramento dei conti che potrebbe, nei casi più critici, determinare la necessità di avviare un piano di riequilibrio pluriennale per enti che ad oggi sono sani o il crac per gli enti già nel limbo del predissesto.

Secondo le stime Anci, che ha a questo proposito lanciato un allarme alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sollecitandone l’intervento, sono “circa 1.400 comuni coinvolti nella costituzione del Fondo anticipazione liquidità”, di questi “circa 950 risultano in disavanzo nel 2019, come anche 8 province”. La misura del contraccolpo dipenderà chiaramente dall’ammontare delle risorse cui si era fatto ricorso e dalla salute dei conti dell’ente ma va da sé che il livello di tensione sarà tendenzialmente più alto in quei 400 comuni (dati aggiornati al 31 dicembre 2020, Rapporto Cà Foscari basato su dati Viminale) che sono attualmente in riequilibrio finanziario.

In questa categoria, detta anche pre-dissesto, ci sono maxi amministrazioni come Napoli, Catania, Messina, Reggio Calabria, Foggia, Pescara, Terni, Andria, Lecce, Alessandria, Brindisi e Guidonia, ma anche tutta una serie di enti di piccole e medie dimensioni, la maggior parte dei quali concentrati tra Calabria (86), Sicilia (83) e Campania (64). Valle d’Aosta e il Fvg uniche regioni che non hanno enti in dissesto o riequilibrio.

Ma quanti sono ad oggi gli enti dissestati in Italia? Sempre secondo il rapporto citato, al 31 dicembre 2020 erano 683. Anche in questo caso la parte del leone la fa il Mezzogiorno che vede nuovamente la Calabria indossare la maglia nera con 193 comuni in default, seguita dalla Campania (173) e dalla Sicilia (80). A un passo dal poco ambito podio, il Lazio, con 53 comuni dissestati, seguito dalla Puglia che ne conta 46. A guidare di contro la classifica dei virtuosi ci sono Valle d’Aosta e il Friuli, uniche regioni italiane che non risultano avere enti in dissesto o riequilibrio, seguite dal Trentino, che conta solo un pre-dissesto, e dalla Sardegna che si ferma a quota 4 dissesti ed ha all’attivo zero riequilibri.

Guardando all’incidenza percentuale delle due condizioni emerge che sono attualmente in dissesto o riequilibrio quasi 7 Comuni calabresi su 10 (279 su un totale di 411) e più del 40% dei comuni campani (237 su 552) e siciliani (163 su 390). Seguono: la Lombardia con 43 enti, che però in termini percentuali rappresentano solo il 2,7% del totale; la Puglia e il Lazio, entrambi con 41 comuni in dissesto o pre-dissesto; l’Abruzzo (36); la Basilicata (34); il Molise (32); il Piemonte (20); la Toscana (18); Emilia Romagna e Marche (14); Umbria (10). Chiudono la classifica il Veneto, con 4 enti (3 in dissesto e uno in riequilibrio); la Sardegna (4) e il già citato Trentino Alto Adige con 1 solo comune in predissesto.

Il rapporto ricorda che oggetto del contendere sono, nello specifico, le modalità con cui i comuni hanno contabilizzato quelle risorse (anticipazioni di liquidità) messe in campo dal “Decreto Sblocca debiti”. La norma, varata nel 2013 dal Governo Monti, fu emanata per andare incontro alle sollecitazioni di Bruxelles che aveva bacchettato il nostro Paese per l’enorme massa di debiti commerciali accumulati dalle pubbliche amministrazioni.

All’epoca le stime dell’entità del debito complessivo della Pa verso le imprese oscillava tra 90 e 130 miliardi di euro (poi rivelatisi eccessive di circa il 30% rispetto all’effettiva entità grazie all’operazione “disclosure” sui conti pubblici operata dal nuovo sistema contabile universale introdotto a regime nel 2016 per enti locali e regioni, che ha consentito di togliere dalle stime iniziali i debiti solo potenziali rappresentati dagli investimenti per opere pubbliche solo messe a bilancio ma non realizzate). Cifre da capogiro che stritolavano imprese teoricamente sane che non erano in condizione di sopravvivere ai tempi biblici di pagamento dei nostri comuni e delle nostre province. Quella norma e le sue successive ‘riedizionì hanno fatto sì che negli anni fossero stanziati oltre 11,450 miliardi, così ripartiti: 2013 – 3.411 milioni di euro; 2014 – 7.189 milioni di euro; 2015 – 850 milioni di euro. Denari che in alcuni casi hanno solo aiutato enti in leggera difficoltà a onorare i debiti commerciali arretrati ma che, in altri casi, sono stati vero e proprio ossigeno per amministrazioni altrimenti al collasso.

Un caso su tutti è, appunto, quello del comune di Napoli che ne ha beneficiato per quasi mezzo miliardo. Secondo la Corte costituzionale, questo continuo slittamento in avanti della restituzione dei debiti e del rientro di disequilibri finanziari ha di fatto violato principi costituzionalmente garantiti quali la solidarietà intergenerazionale e il pareggio di bilancio. In parole povere – ammoniscono i giudici della Corte – stiamo continuando ad addossare sulle spalle delle future amministrazioni e generazioni, debiti contratti in passato ed è dunque giunto il momento di spezzare questo circolo vizioso.


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