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Morti sul lavoro, in Italia la precarietà uccide. Il più alto numero di infortuni in Abruzzo, Umbria, Basilicata, Puglia, Molise, Campania e Calabria
Per i cinque operai morti a Casteldaccia sono in corso i soliti riti funebri: i lavoratori hanno scioperato con diverse modalità a seconda della categoria di appartenenza; è stato effettuato un sit in davanti alla Prefettura. Nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla Procura di Termini Imerese sono scattati i sigilli dopo la perquisizione compiuta dagli agenti della Squadra mobile a Partinico nella sede della Quadrifoglio, l’azienda per la quale lavoravano quattro dei cinque operai morti; è stato sentito il settimo lavoratore, Giovanni D’Aleo, dipendente Amap (l’azienda municipale appaltante, l’unico rimasto illeso, che era riuscito a dare l’allarme; è stato sequestrato l’impianto di sollevamento della rete fognaria.
Non è mancata la protesta dei leader sindacali i cui toni nei comizi sono direttamente correlati – immagino – al senso di impotenza che avvertono quando si verificano, con una frequenza che lascia sconcertati, eventi tanto tragici e dolorosi. Soprattutto quando fin dai primi rilievi è stato chiaro che sarebbe stata fatale l’assenza di mascherine con filtro. Gli operai sarebbero stati, inoltre, sprovvisti di tutti gli altri dispositivi di sicurezza obbligatori per legge quando si agisce in un ambiente confinato, come il gas alert, un dispositivo che permette di rilevare inquinanti. Mancavano i dispositivi e le condizioni di sicurezza, che probabilmente avrebbero potuto evitare questo ennesimo incidente.
Così si è espresso il comandante provinciale dei vigili del fuoco di Palermo, Girolamo Bentivoglio Fiandra: «Questa tragedia non ci sarebbe stata se fossero state prese tutte le precauzioni necessarie e previste». Nel tentativo di aiutarsi l’uno con l’altro sono rimasti soffocati dall’idrogeno solforato, prodotto di fermentazione dei liquami nella vasca dell’impianto di sollevamento di acqua reflue di via Nazionale dell’Amap, la società che gestisce le condotte fognarie e idriche del capoluogo siciliano. Da quanto si apprende il gas velenoso nei cunicoli era presente in una concentrazione dieci volte superiore ai limiti. Potremmo parlare di morti ‘’banali’’ e perciò ancora più gravi e disperate. Per salvare cinque vite non sarebbero occorse costose tecnologie, ma elementari accorgimenti. I minatori gallesi portavano nei cunicoli del sottosuolo gabbie con canarini, che avrebbero segnalato con la loro morte le fughe di grisù, così da consentire a quegli esseri umani di mettersi in salvo.
I soldati durante la Grande Guerra avevano imparato a spese della vita ad indossare le maschere appena avvertivano l’odore dei gas. A quanto pare l’azienda Quadrifoglio era specializzata in quell’attività per la quale aveva vinto l’appalto. E non si può neppure dire – con superficialità – che quei lavoratori fossero pressati dal datore di lavoro al punto da evitare ogni cautela. Uno dei contitolari dell’impresa Epifanio Alsazia di 71 anni è tra i morti; così come è avvenuto nel caso del titolare della squadra saltata in aria nell’esplosione al bacino di Suviana. Evitiamo allora – per rispetto di quei lavoratori – di imprigionare il loro sacrificio nei nostri schemi ideologici. Commentando l’ennesima strage il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini ha svolto le solite considerazioni: «A uccidere è il sistema di appalti, subappalti, precarietà. Un modello di impresa fondato su appalti, subappalti e precarietà è un modello che uccide».
E infatti in uno dei quattro referendum su cui sta raccogliendo le firme la Cgil intende apportare una modifica normativa in forza della quale la responsabilità dell’incidente sul lavoro in un’azienda appaltatrice risalga fino a quella appaltante. Ma se vi sono casi in cui la catena dei subappalti è finalizzata a disperdere la filiera delle tutela, questa tipologia di divisione del lavoro è inevitabile perché consente di svolgere nello stesso arco temporale lavori che richiedono una diversa specializzazione, perché, attraverso l’appalto, vengono coinvolte le piccole imprese operanti nel territorio; infine, perché all’opera delle aziende appaltatrici si ricorre, in un’economia di scala, in determinate circostanze, che non rientrano nell’attività ordinaria dell’impresa appaltante.
Le vittime sono state trovate tutte senza protezioni e mascherine. Ma in questo caso vi è una precisa responsabilità dell’azienda, perché non può consentire, anche avvalendosi del potere disciplinare, che i lavoratori si privino – per sottovalutazione del rischio – dei più elementari strumenti di tutela. Tutto ciò premesso, non ce la caviamo arzigogolando alla ricerca delle responsabilità, distribuendone quote/parti ai vari soggetti. E’ un sistema che non funziona, perciò lo scarico del barile finisce inevitabilmente sull’organizzazione statuale nel suo complesso. Ma del funzionamento del sistema sono in campo responsabilità diffuse che concorrono necessariamente a determinare una condizione di relativa sicurezza. Ma è proprio l’esigenza di una responsabilità corale che viene meno laddove la struttura amministrativa, la società civile e la struttura economico-produttiva sono più deboli.
L’Osservatorio sulla Sicurezza sul Lavoro di Vega Engineering ha definito una zonizzazione del rischio di morte per i lavoratori sulla base dell’incidenza degli infortuni mortali, dividendo così l’Italia a colori: Rosso: regioni con incidenza superiore a +25% rispetto alla media nazionale; Arancione: regioni con incidenza compresa tra la media nazionale e +25% rispetto a tale media; Giallo: regioni con incidenza compresa tra la media nazionale e -25% rispetto a tale media; Bianco: regioni con incidenza inferiore a -25% rispetto alla media nazionale.
La media dell’indice di incidenza della mortalità in Italia alla fine del 2023 è di 34,6 decessi ogni milione di occupati.
Nel 2023 le regioni che hanno segnato i più alti indici infortunistici di mortalità, e finite in zona rossa, sono: Abruzzo, Umbria, Basilicata, Puglia, Molise, Campania e Calabria. In zona arancione: Sicilia ed Emilia Romagna.
Mentre, in zona gialla, cioè sotto la media nazionale: Friuli Venezia Giulia, Marche, Piemonte, Veneto, Sardegna, Lombardia, Liguria e Trentino Alto Adige.
In zona bianca, ossia la zona in cui l’incidenza delle morti sul lavoro è la più bassa, troviamo: Lazio, Toscana e Valle d’Aosta.
Nel Mezzogiorno, secondo la Svimez, la precarietà del lavoro è un fenomeno tutt’altro che marginale e in sensibile aumento. I lavoratori dipendenti con contratti a termine hanno superato il milione nel 2021, pari al 23% del totale dei lavoratori dipendenti (erano il 20,2% nel 2020). A livello nazionale la stessa quota è pari al 16,4%, scende al 13,8% al Nord e al 15,2% nel Centro. Le forme contrattuali a tempo determinato sono più diffuse fra le donne e i giovani. In particolare, nelle regioni meridionali la quota sul totale dei dipendenti per le donne è pari al 24,4% (in Calabria la percentuale è 28,9%) mentre oltre quattro giovani 15-34enni su dieci hanno un contratto a tempo determinato (41,9%).
In questa fascia di età le distanze con il resto del Paese sono meno marcate rispetto alle fasce adulte, segno che la diffusione della precarietà fra i giovani in qualche modo rappresenta una questione trasversale nel Paese. Tuttavia questa condizione si protrae nel tempo nel Sud in misura maggiore. Lo confermano i dati sulla persistenza nel tempo nella precarietà, che testimonia una maggiore vulnerabilità nel mercato del lavoro. La Svimez continua ad confermare la consueta visione pauperistica del Sud. Altre analisi certificano che dalla seconda metà del 2021, è cresciuta l’occupazione più stabile, ma la vulnerabilità nel mercato del lavoro meridionale resta su livelli critici.
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