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Il giudice Paolo Adinolfi, scomparso il 2 luglio 1994

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LE NUOVE monete da due euro ricordano il sacrificio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, nomi celebri del lungo elenco dei magistrati uccisi dalle mafie e dalla lotta armata politica in Italia, ma in quell’elenco continua ad essere assente il nome di Paolo Adinolfi.

Chi era costui? Un giudice civile, un fantasma della Repubblica, troppo scomodo e ingombrante per essere dichiarato vittima dal Csm o dal Ministero di Grazie Giustizia, men che meno dall’Associazione nazionale magistrati di cui non aveva mai fatto parte. Paolo Adinolfi è stato un giudice civile, che nei meandri molto oscuri del Tribunale di Roma non si è mai voltato dall’altra parte. Isolato dai suoi colleghi e soprattutto non ricercato con la giusta determinazione quando il 2 luglio 1994 esce di casa e non fa più ritorno lasciando nella disperazione la moglie e due giovani figli che da 27 anni cercano una verità e almeno una tomba dove poter deporre un fiore o recitare una preghiera.

Ora un libro, “La scomparsa di Adinolfi” scritto da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno, mette finalmente insieme tutti i pezzi di un mosaico complesso che incrocia fallimenti clamorosi e servizi deviati e grazie a documenti e testimonianze inedite fa individuare la pista più probabile. Adinolfi è uno scomparso. Probabilmente fu rapito e ucciso. Il cadavere mai ritrovato.

Ho scoperto la storia di Adinolfi lavorando alla realizzazione di un libro su tutti i magistrati uccisi in Italia, “Toghe rosso sangue”, che mi ha dato molte soddisfazioni. La prima, a pochi giorni dall’uscita in libreria nel 2010. Ricevo la lettera autografa della vedova di Adinolfi, Nicoletta Grimaldi, che mi ringrazia per aver contribuito a far conoscere uno dei più nascosti misteri d’Italia. Il caso Adinolfi, infatti, ha interessato soltanto la cronaca romana più attenta e la trasmissione “Chi l’ha visto” che nel corso del tempo ha anche raccolto qualche indizio utile alle indagini.

Dal libro viene tratto uno spettacolo dal titolo omonimo. In molte repliche a fine rappresentazione, che si conclude proprio con la storia di Adinolfi, sale sul palco il figlio Lorenzo, aveva 16 anni quando è scomparso il padre, 22 la sorella Giovanna, che può raccontare il dramma della sua famiglia.

Adinolfi scompare il 2 luglio 1994. Viene visto in tribunale insieme ad un’altra persona mai identificata, sbriga delle commissioni, incontra un conoscente su un bus, a casa lo aspetta la pasta e fagioli della moglie. Non arriverà mai. Quando scatta l’allarme le ricerche sono disordinate. Ad accreditare l’allontanamento volontario ci pensa un assestato depistaggio che fa ritrovare le chiavi del giudice nella cassetta della posta dell’anziana madre. Ma Adinofli non aveva doppie vite. Non aveva drammi interiori come Majorana e Caffè. Cattolico integerrimo e praticante, aveva avuto solo problemi al lavoro per la sua ostinata volontà a fare il suo dovere. Lo aveva dimostrato nel fallimento della Casina Valadier di Ciarrapico. Era andato in vacanza e si era trovato il fascicolo sottratto, senza nessun avviso o spiegazione del suo capo.

Il Tribunale di Roma era il porto delle nebbie, anche alla sezione fallimenti. Adinolfi chiede il trasferimento e cerca un magistrato milanese per poter parlare da privato cittadino. Quel colloquio non avverrà mai per la scomparsa del giudice. In lunghi anni emergono pezzi di verità su Adinolfi. Un pentito chiama in causa i servizi e la solita Banda della Magliana. Frammenti di Suburra come li hanno chiamati gli autori del recente e documentato libro. Due inchieste sono state archiviate. La prima si volle lasciare convincere della tesi dell’allontanamento volontario. La seconda ha seguito la circostanza verificata dell’omicidio maturato nel lavoro del giudice Adinolfi. Dopo anni, l’unico riconoscimento alla famiglia che non ha mai smesso di cercare verità e resti del congiunto.

Alla presentazione a Roma del libro “La scomparsa di Adinolfi” è intervenuto il giudice Nino Di Matteo. Finalmente un magistrato prende parola sul collega scomparso e dice la cosa giusta: “Chiederò al Csm di ricordare Paolo Adinolfi. Il suo nome deve essere messo accanto a quello degli altri 28 di magistrati uccisi per il lavoro che stavano svolgendo. Occorre pensare di poter rompere gli argini perché non è detto, qualcuno può sempre parlare”. Sarebbe ora che almeno il Csm riconosca il ruolo di vittima ad Adinolfi.

Nel 2011 quando ho volentieri ceduto contenuti e diritti del mio libro al Csm per redigere il volume “Nel loro segno” in occasione della “Giornata della Memoria” che al Quirinale celebrò tutti i magistrati uccisi quello di Paolo Adinolfi non era stato preso in considerazione.


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