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«È UNO shock geopolitico di cui l’economia globale non aveva alcun bisogno». Così il presidente della Banca mondiale, Ajay Banga, sull’attacco terroristico su larga scala di Hamas contro Israele e sulla risposta che ne sta conseguendo. Ciò detto, però, è ancora presto per sapere se quanto sta accadendo in Medio Oriente avrà un impatto significativo sulle prospettive di crescita e inflazione su scala globale. Molto dipenderà dal fatto se il conflitto si espanderà acquisendo una rilevanza per l’intera regione, ricca di petrolio e gas indispensabili all’Europa. In questi giorni i tentativi della diplomazia internazionale stanno cercando di impedire che ciò avvenga, perché il tributo di vite umane è già spaventosamente alto: prima a causa dell’incursione di Hamas, poi per la risposta di Israele che sta preparando l’invasione di terra a Gaza.

CONFLITTO ISRAELE-HAMAS, YELLEN RASSICURANTE

Un coinvolgimento di altri attori, come il movimento degli Hezbollah in Libano, sostenuti dal regime di Teheran, e altre fazioni dell’estremismo islamico presenti in Siria e Iraq potrebbe portare al coinvolgimento più o meno diretto dei rispettivi sponsor. Tutti guardano ovviamente all’Iran che, pur avendo negato qualsiasi coinvolgimento nelle sanguinose incursioni di Hamas in Israele, ha espresso solidarietà al gruppo estremista che governa la striscia di Gaza dal 2007. Ieri il segretario di Stato americano Antony Blinken è stato in Israele, dove ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu. Tra le altre cose ha espresso preoccupazione sul modo in cui Israele risponderà all’attacco e sul fatto che le democrazie si distinguono dai gruppi terroristici per l’attenzione alle vite dei civili. Sul fronte arabo è stato invece il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, ad avere un colloquio telefonico con il presidente iraniano Ebrahim Raisi, per cercare di allentare le tensioni e circoscrivere l’incendio. Per il momento non si è assistito a una nuova fiammata dei prezzi petroliferi, anche perché nell’area interessata dai conflitti non vi sono pozzi.

Qualche tensione si è avuta sul mercato del gas, con un aumento dei prezzi sul Ttf, legati però soprattutto al sabotaggio del gasdotto sul Baltico tra Estonia e Finlandia. Anche il Fondo monetario internazionale nell’outlook d’autunno presentato mercoledì, dice che è prematuro fare previsioni che tengano conto dell’impatto di un conflitto in Medio Oriente. Il capo economista del Fmi, Pierre-Olivier Gourinchas, ha però sottolineato che un aumento del greggio del 10% potrebbe causare un calo della crescita del Pil globale dello 0,2% e un aumento dell’inflazione dello 0,4%. La stessa segretaria al Tesoro americana Janet Yellen ha voluto essere rassicurante. «Mentre chiaramente monitoriamo la situazione, non credo che la crisi in Israele possa avere un impatto significativo sull’economia globale».

L’OUTLOOK DEL FMI

Resta il fatto che l’economia globale è già debole, a causa dell’effetto del rialzo ripetuto dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali per ridurre l’inflazione. Una nuova fiammata dei prezzi energetici in seguito all’allargarsi del conflitto alla regione mediorientale renderebbe ancora più difficile il lavoro degli istituti d’emissione e potrebbe prolungare un ciclo restrittivo di politica monetaria che molti, al di là e al di qua dell’Atlantico, considerano prossimo al suo compimento. Il Fondo monetario internazionale, nelle sue previsioni, ha lasciato invariate le stime di crescita per quest’anno al 3%, mentre ha rivisto al ribasso quelle del prossimo, dal 3 al 2,9%. Per l’Eurozona, la conferma negativa arriva sulla Germania, la cui recessione nel 2023 sarà più severa del previsto (-0,5% rispetto a -0,2%). Gli equilibri macroeconomici restano dunque precari.

La guerra tra Israele e Hamas ha inoltre compromesso l’accordo di pace, in lavorazione da anni e che sembrava a portata di mano, tra Arabia Saudita e Israele, sul modello degli Accordi di Abramo siglati sempre da Israele con gli Emirati Arabi Uniti e sponsorizzati dall’allora Amministrazione Trump. Un simile accordo, che avrebbe coinvolto anche importanti aspetti economici e commerciali, avrebbe contribuito a stabilizzare l’area, a un probabile aumento della produzione petrolifera con ricadute internazionali positive sul prezzo del greggio. Molto dipenderà dalle dinamiche che l’attacco terrestre di Israele nel cuore di Gaza metterà in moto. Già mercoledì gli Usa avevano invitato i cittadini americani presenti in Libano a lasciare subito il Paese per paura di azioni da parte di Hezbollah.

I GIACIMENTI DI ISRAELE

La crisi in Israele ha intanto avuto un primo impatto fuori confine con la chiusura temporanea del giacimento di gas Tamar per questioni di sicurezza. Insieme a Leviathan, Tamar è il più importante pozzo di gas scoperto in Israele negli ultimi decenni. Una quota importante dell’estrazione viene trasportata in Egitto, dove viene poi liquefatto per essere esportato anche in Europa. A causa della chiusura di Tamar le consegne di gas israeliano verso l’Egitto sono scese immediatamente del 20%. In questo modo il ruolo di Israele come importante fornitore energetico della regione viene rimesso in discussione. I giacimenti in questione rappresentano la metà della produzione di gas israeliano.

L’altra metà è dovuta a Leviathan. Solo l’anno scorso con la mediazione Usa era stato firmato uno storico accordo tra Israele e Libano (i due Paesi non hanno relazioni diplomatiche) sul riconoscimento dei confini marittimi, prerequisito essenziale per svolgere in un quadro stabile l’attività di estrazione ed esportazione. Tra i progetti legati allo sviluppo dei giacimenti israeliani di gas c’era anche quello di costruire una piattaforma galleggiante per la liquefazione del gas destinato all’esportazione, ma la crisi ha probabilmente congelato la realizzazione di questa infrastruttura che interessa molto l’Europa e il suo fabbisogno di approvvigionamento energetico in alternativa alla Russia in guerra con l’Ucraina.


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Alessandro Chiappetta

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