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L’ALLUVIONE dell’Emilia Romagna sta evidenziando i ritardi delle politiche pubbliche a tutela del territorio e la difficoltà di una gestione unitaria della risposta dello Stato contro il dissesto idrogeologico. Sappiamo che non è una questione di soldi, perché sono tanti i miliardi stanziati su questa voce di bilancio. Sappiamo pure che i piani di prevenzione spesso esistono ma non vengono attuati. Sappiamo, infine, che sono tante le opere – rimaste sulla carta oppure incompiute oppure realizzate e abbandonate – che avrebbero potuto evitare catastrofi come quella che si compie in questi giorni trai colli e pianure della Romagna e che in passato si sono abbattute su altre parti d’Italia a causa della violenza del fattore meteo-climatico.
PREGIUDIZI SFATATI
Detta in altri termini: è vero che alcuni fenomeni naturali sono difficili da impedire e da controllare, così come è vero che il territorio italiano è per sua natura fragile e particolarmente esposto, ma è anche vero che l’azione dell’uomo – meglio, in questo caso: l’azione degli uomini che svolgono funzioni amministrative in rappresentanza dello Stato e delle sue articolazioni – può dare un contributo indispensabile per attutirne gli effetti. Cosa che, evidentemente, non accade a sufficienza nella gestione del dissesto idrogeologico da parte delle nostre istituzioni. Viceversa, il disastro che ha colpito l’Emilia Romagna mostra in modo plastico ciò che nel nostro paese funziona molto bene, a dispetto di antichi pregiudizi sull’attitudine apatica e strafottente degli italiani.
Ci riferiamo alle libere iniziative dei cittadini per aiutare le popolazioni in difficoltà e per lo svolgimento di attività a tutela dei beni comuni e dell’interesse della collettività. Non solo i giovani che spalano il fango dalle case e dalle strade, ma anche i volontari che prestano soccorso alle persone in difficoltà, che consegnano viveri e altri beni di necessità, che intrecciano catene di solidarietà anche spicciola, che realizzano piccole opere per la messa in sicurezza del territorio, che contribuiscono alle raccolte di fondi e generi di sussistenza per le popolazioni colpite, che salvano e portano al sicuro migliaia di animali che rischiano di annegare negli allevamenti che sono un tesoro fondamentale dell’economia di quella regione.
Le cronache di questi giorni sono piene di storie esemplari in tal senso. Ma sono le stesse storie che vengono fuori ogni volta che capitano disastri simili e che dimostrano la disponibilità dei cittadini a rimboccarsi le mani per aiutare nell’emergenza e ricostruire nel medio e lungo periodo.
L’ESERCITO DEI VOLONTARI
La retorica stucchevole dei titoli dei giornali ritorna come noiosissima routine ad ogni sciagura, a partire dall’ormai mitologico 1966, l’anno dell’esondazione dell’Arno e dell’alluvione di Firenze. In quella occasione, dopo giorni di piogge ininterrotte, l’Arno ruppe gli argini e in poco tempo la piena si riversò per le strade, invadendo il centro storico, dove il livello dell’acqua arrivò a un picco di quasi 5 metri. Durante l’alluvione la città fu invasa da 250 milioni di metri cubi d’acqua e 600mila di fango. Uno scenario apocalittico che mise in pericolo i cittadini e l’inestimabile patrimonio artistico e culturale della città: dipinti, affreschi, manoscritti, sculture.
Migliaia di persone, giovani e meno giovani, si misero in viaggio dall’Italia e da tutto il mondo per salvare il patrimonio artistico fiorentino. Allora non era ancora stata istituita la moderna Protezione civile, un’idea che prese le mosse anni in seguito al terremoto dell’Irpinia che, il 23 novembre 1980, colpì una vasta area della Campania, della Basilicata e marginalmente della Puglia, causando 2.734 vittime. A riportare gravi lesioni furono complessivamente 688 Comuni, metà dei quali registrò la perdita dell’intero patrimonio abitativo. I primi soccorsi risentirono della totale mancanza di coordinamento: volontari, strutture regionali e autonomie locali si mobilitarono spontaneamente senza aver avuto indicazioni e precisi obiettivi operativi dal ministero dell’Interno.
Lo stesso presidente Pertini denunciò in tv il ritardo dei soccorsi e le gravi mancanze nell’azione dello Stato. Le esperienze di quegli anni sono l’inizio di una nuova storia che continua oggi. La Protezione civile, istituita con legge del 1990, è diventata finalmente un’organizzazione stabile e un fiore all’occhiello dell’amministrazione pubblica italiana.
COSTITUZIONE MATERIALE RISCRITTA
Anche l’apporto dei volontari – come quelli impegnati a Firenze – è diventata una prassi abituale. I volontari occasionali sono diventati, più in generale, cittadini attivi organizzati. Il mondo del Terzo Settore, con le sue strutture, è artefice dell’attuazione di diverse politiche pubbliche – dalla sanità ai trasporti, dall’assistenza alla scuola, dall’ambiente al patrimonio culturale – in concorso con le amministrazioni pubbliche nazionali, regionali e locali La cittadinanza attiva italiana, nell’arco degli ultimi 50-60 anni, ha contribuito a riscrivere la Costituzione “materiale” del Paese. «Il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», previsto all’articolo 4 della Carta fondamentale, non ha più solo un senso programmatico, ma vive nella prassi da milioni di cittadini impegnati a vantaggio della collettività.
Le “formazioni sociali”, riconosciute dalla Repubblica all’articolo 2 della Costituzione, sono numerose e vitali. Con la riforma del Titolo V, spesso vituperata, grazie alla pressione delle organizzazioni civiche, il Parlamento ha introdotto nell’articolo 118 un comma che recita: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Il testo fu l’esito di una formula scritta allora, fuori dal Parlamento, da Cittadinanzattiva, un’organizzazione di tutela dei diritti dei cittadini, e fu il risultato di un’azione di lobbying delle associazioni di terzo settore rivolta verso i legislatori.
Ecco perché oggi la definizione di “angeli del fango” appare insulsa e insufficiente: non si tratta di angeli, ma di persone normali e tutt’altro che apatiche, di cittadini che svolgono azioni nell’interesse generale creando un tessuto civile coeso e solidale. L’Italia ne è piena, e proprio su quest’attivismo civico diffuso può fondare oggi la sua resilienza e il suo progresso.
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