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Il sociologo Cleto Corposanto

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Cleto Corposanto è professore ordinario di Sociologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro. Ha vissuto la sua vita fra Puglia, Trentino e Calabria in una contaminazione continua di luoghi, persone, culture e tradizioni, alimentata anche da numerosissimi viaggi in tutto il mondo. Per ora se ne sta, tranquillo, in terrazza in attesa di tempi migliori. Guarda il mare e legge.

Professore, che differenza c’è tra distanza sociale e prossimità sociale?

«Uno dei concetti che resterà indissolubilmente legato a questa lunga, estenuante lotta contro il CoVid19 sarà quello di distanza sociale. Cioè quell’idea che, stando appunto a debita distanza gli uni dagli altri ci poniamo al riparo da eventuali contaminazioni da virus. È un termine, distanza sociale, che viene usato con una frequenza altissima, perché in fondo è il perno sul quale si basano la fase 1 – quella che ci ha tutti o quasi confinati fra le mura domestiche – ma anche la fase 2, quella che prevederà un lento ritorno alla normalità ma sempre, appunto, a debita distanza. Gli epidemiologi più pessimisti pensano che in realtà un ritorno completo ad alcuni stili di vita caratteristici  dell’era pre-CoVid19 non sarà proprio più possibile. Nondimeno, il tema della distanza sociale è stato un termine sul quale moltissimo hanno lavorato i sociologi già dai primi anni del ’900, suggerendone peraltro un insieme di significati molto diversi rispetto a quelli che oggi paiono caratterizzare alcune scelte di contenimento della pandemia. Fra l’altro, significativamente, un uso improprio del concetto di distanza sociale cozza esplicitamente con il convincimento pure mediaticamente forte in questi giorni difficili, che “uniti ce la faremo”. Il distanziamento sociale come forza comune per uscire da questo periodo, insomma, appare sempre più un ossimoro. E allora la mia proposta è quella di chiamare le cose con il loro nome: riferendoci a quello che ci chiedono di fare, di distanziarci per aumentare la sicurezza, chiariamo: si tratta di una distanza fisica (e difatti si esprime con una quantità ed è espressa in metri). Perché invece, in realtà, la chiamata a stare uniti, a fare gruppo, a dare una mano a chi non ce la fa, in poche parole a “fare comunità” è esattamente il contrario della distanza sociale. Vuol dire lavorare sulla prossimità, sulla cura di sé e degli altri, sulla solidarietà sociale, sul fare reti».

Guardando al dopo, quali saranno le parole nuove per leggere e scrivere la nostra quotidianità?

«Credo la prima sia sicuramente consapevolezza: la grandissima parte di noi sperimenta una situazione come quella che oggi ci colpisce per la prima volta nella sua vita. Le epidemie – o le pandemie – sono una costante nella storia dell’umanità ma, fortunatamente, sono rare. Tanto rare che, appunto, l’ultima che si ricordi ha superato i cent’anni. Eppure, non deve più abbandonarci la consapevolezza che siamo fragili (a dispetto di alcuni modelli culturali dominanti), che basta un nulla (piccolo, invisibile, trasparente) per mettere in crisi il mondo; e, soprattutto, la consapevolezza che siamo artefici del nostro destino – perché nulla avviene a caso – e che questo destino può e deve essere rinegoziato sulla base di questa esperienza. L’altra parola sarà certamente scienza: abbiamo bisogno di una scienza che sia più collaborativa, più multidisciplinare, più legata a una visone d’insieme delle cose: in questo momento certamente viviamo un’emergenza sanitaria, ma ricordiamo che non possiamo migliorare la salute globale mantenendo esclusivamente una visione medica ristretta.  Le epidemie sono fenomeni sia sociali che biologici. E la prevenzione e la cura non possono che essere un intreccio di soluzioni bio-psico-sociali».

Possiamo immaginare un nuovo Rinascimento anche dal punto di vista delle relazioni umane oltre che economiche?

«Dovremmo. E in parte sarà così per un po’ di tempo. Le nostre relazioni non riprenderanno automaticamente all’apertura della gabbia. Quello che questa esperienza ci insegna è che dagli altri c’è sempre da imparare qualcosa. Per noi latini, mediterranei, è difficile resistere alla tentazione di esprimere la vicinanza a una persona attraverso il tatto (che si traduce spesso anche in “baci e abbracci”); dall’altra parte del mondo non è così. Pensate al Giappone ma in generale a tutta l’Asia. In Giappone ci si parla a una certa distanza, e se provate ad “accorciare” la stessa potreste causare un moto di stizza nel vostro interlocutore. Ecco, forse ci resterà un po’ di questa idea che un minimo di distanza può essere salubre; anche se questo, evidentemente, rivoluziona alcuni dei capisaldi dei nostri stili di vita. Non so per quanto tempo: ma sono certo che questa idea della distanza fisica minimale, un po’, ce la porteremo dentro tutti».

Umani sì, ma con la mascherina, almeno per un certo periodo?

«Nei miei frequenti viaggi in tutto il mondo, ho sempre visto molta gente usare la mascherina; ricordo con un certo imbarazzo, oggi, le prime volte che ho visto gente per strada indossare la mascherina. Credo sia stato in Cina, più di vent’anni fa. Per noi occidentali, la mascherina era sinonimo di ospedali, di malati gravi, di chirurghi. Mai avrei pensato un giorno di vedere gente in giro, in Italia, con la mascherina. Ebbene, mi sbagliavo. Ma la cosa interessante è che, allora, in Asia metteva la mascherina non chi aveva paura di contagiarsi, come facciamo oggi noi quando scendiamo a fare la spesa o andiamo in farmacia. No. La metteva chi sapeva di non essere al 100% dal punto di vista sanitario – magari anche solo per un banale raffreddore – e non voleva contagiare gli altri. Una mascherina “altruista”, e non “egoista” come quelle che ho visto in giro in qualche supermercato. E poi ne ho viste anche fatte con la carta da forno perché non se ne trovano… Ma questo è un altro discorso. A breve saremo inondati dalle mascherine. La mascherina sarà una fedele compagna dei nostri tempi nuovi. Diventerà un capo d’abbigliamento come i guanti d’inverno o la canotta d’estate, o la kefiah per ogni stagione. E scommettiamo che diventerà un oggetto fashion? D’altra parte grandi marche della moda hanno immediatamente contribuito al rifornimento di un mercato colto impreparato dalla enorme richiesta di questo strumento indispensabile per relazionarsi in tempi di pandemia (e vitale per operatori sanitari e sociosanitari, naturalmente)».

Il sociologo e antropologo Émile Durkheim diceva: “Non fissarti nel destino individuale. Esistere è un dovere, durasse un secondo”. Qual è oggi il valore dell’appartenenza a una collettività?

«Oggi, stando tutti (o quasi..) a casa, stiamo dimostrando che il valore che diamo alla comunità è elevato. Non dimentichiamo che questa pandemia ha livelli di contagio differenti per zona e per età (o perlomeno sembra avere ripercussioni meno gravi sulle fasce d’età più giovani): ebbene, stiamo a casa tutti, comunque, anche se non abitiamo a Lodi o a Padova e abbiamo meno di 65-70 anni. Noi siamo e nasciamo singoli come individui, ma ci trasformiamo presto in animali sociali. Saremo per tutta la vita fra l’incudine e il martello, fra individualismo e collettivo, fra scelte singole e comunitarie. Questa consapevolezza dell’importanza della comunità va comunque incentivata, va curata, va fatta crescere. Non bisogna trovarsi in queste situazioni per apprezzarla. E in questo il valore della cultura è inestimabile. Non c’è nessuno che ce la può fare da solo, in nessun campo. Senza gli altri, siamo nulla, questo sia chiaro».

Michel Foucault, filosofo e storico francese, invece, ha detto “Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare” . Cosa potremmo diventare dopo il Coronavirus?

«Potremmo – dovremmo – diventare abitanti più consapevoli di un mondo migliore. Quello che appare chiaro da questa vicenda è che alcuni equilibri (ambientali, sanitari, economici, sociali) sono complessi e interconnessi, e che tirare troppo la corda da qualche parte rischia di provocare danni inestimabili. Se pensiamo alle questioni legate ai profitti e alla sanità, ai soldi e all’ambiente, alle disuguaglianze sociali, economiche e culturali, ci rendiamo conto che forse non tutto è stato sempre orientato al meglio. Le innovazioni scientifiche e tecnologiche sono necessarie, ma se vogliamo che abbiano un impatto risolutivo tutto ciò richiede la comprensione di come le persone si adattano e cambiano il loro comportamento.  Ciò richiederà probabilmente nuove conoscenze, appunto su quello che potremmo diventare».

In questi giorni lei sta leggendo alcuni testi di Oliver  Sacks, cosa ci insegna l’autore di “Risvegli” e di “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”?

«Ho appena finito di leggere “Ogni cosa al suo posto”, il suo ultimo libro. Rispondo con le sue parole: “[…] la vita umana, con la sua ricchezza di culture, sopravvivrà anche su una Terra devastata[…] Per quanto io ammiri la buona scrittura, l’arte e la musica, mi sembra che soltanto la scienza – sostenuta dal rispetto per i valori umani, dal buon senso, dalla lungimiranza e dalla preoccupazione per gli sfortunati e i poveri – offra al mondo una speranza nella palude in cui attualmente si trova”. Scritto quando di CoVid19 non c’era traccia. Chiaro, no?

C’è una poesia di Gianni Rodari da cui partire per parlare ai bambini di oggi costretti a vivere un’esperienza così faticosa come la pandemia. Lo scrittore in “Lettera ai bambini” si rivolgeva ai piccoli con questi versi: “È difficile fare le cose difficili: parlare al sordo, / mostrare la rosa al cieco. / Bambini, imparate a fare cose difficili: /dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi che si credono liberi”. È questa la sfida del Nuovo Mondo?

«Sì è questa. La sfida è che tutto quello che citava Rodari non sia più considerata una cosa difficile ma diventi quotidianità. Normalità».


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