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Il Maestro Ennio Morricone, protagonista del documentario “Ennio” dal 17 nelle sale

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Ennio inizia controvoglia. La tromba, l’arnese con il quale il padre sfama la famiglia, è uno strumento esigente, vuole persino che il corpo, con l’ispessimento del labbro, si adegui a lui. Vorrebbe fare qualcos’altro, forse il medico. Il padre decide diversamente e Ennio obbedisce. Dopo un inizio da studente svogliato, attacca a suonare tarantelle, bourrè, gighe. Non la smetterà mai più.

«Volevo lasciare la musica alla fine degli anni 70. Poi ho rimandato di un decennio. Alla fine del successivo ho detto che avrei smesso in quello dopo. Poi non l’ho detto più». Studia il contrappunto come un ingegnere edile le tecniche di costruzione, da Monteverdi a Frescobaldi a Bach, ma allo stesso tempo suona nelle bande militari. Maria, la moglie, lo segue per strada. Il suo maestro, Goffredo Petrassi, tra i più grandi compositori italiani del secolo, passa dal neoclassicismo di Stravinskij alla musica dodecafonica, dalla musica sacra dei Salmi del maestro russo all’oceano misterioso e sconosciuto dell’atonalità.

Ennio rimarrà per sempre marchiato a fuoco da questa dialettica impossibile: l’ostinato dei fiati, che ritroveremo in molte delle sue composizioni, o l’emozione sorprendente del rumore che diventa pura forma del suono. Intanto, però, bisogna portare il pane a casa, entra in Rai per raccomandazione e ne fugge a gambe levate, ma il destino ha in serbo per lui un incontro che cambierà non solo la sua vita, ma anche la musica leggera in Italia. Viene chiamato a curare gli arrangiamenti alla RCA che è sull’orlo della bancarotta, come Wolf in Pulp Fiction. Ennio aveva già fatto il suo servizio militare nella musica popolare accompagnando Macario, Wanda Osiris, Totò nel ritorno di fiamma della rivista nel dopoguerra, ma ora si tratta di qualcosa di completamente diverso.

L’ Italia passa con un balzo senza precedenti da paese distrutto e arretrato a potenza industriale. La musica della Storia cambia, Ennio scoverà partiture, strumenti e suoni giusti per lei. Lo sa bene Gianni Morandi («Prima di Morricone i brani venivano accompagnati da un’orchestra: lui ha inventato l’arrangiamento moderno»). Pizzicate di contrabbasso, balzi di ottava superiore, fusione di tromboni e voci maschili. Gli archi incidono nell’aria frasi di apertura vertiginose: è come se raffiche di note, agili e febbrili, facessero da battistrada alle canzonette. Come usare Klee e Kandinskij per disegnare la cartellonistica di una fiera.

L’aspetto meno conosciuto della sua biografia artistica ed esistenziale è uno dei momenti più galvanizzanti di questo documentario appassionante come il fumetto di un supereroe. Morricone si vergogna di rivelare a Petrassi quello che combina nella canzone di consumo ma allo stesso tempo assorbe dal cuore della rivoluzione della musica contemporanea (l’avanguardia di Darmstadt che vive dall’interno) l’importanza della dialettica di timbro e melodia.

Ennio sarà davvero l’unico capace di mettere insieme John Cage e Mina, il Quartetto Cetra e i fratelli Taviani, John Zorn e Springsteen, Pat Metheny e Chet Baker. Riesce a somministrare alle masse affamate di motivetti da masticare come chewingum, gli spigoli sonori di un barattolo che precipita dalle scale, suoni e rumori che diventano colonna sonora di stagioni indimenticabili, anche se la madre gli chiede con apprensione una sinfonia che abbia dentro innanzitutto la gemma di una melodia, qualcosa che chiunque possa canticchiare. Mentre apre un frigorifero, esce per prendere un autobus, incontra un collega di ufficio in un corridoio. Ennio Morricone, grazie anche alla musica da film, non ci ha mai lasciato sprovvisti di qualcosa del genere da fischiettare o accennare in falsetto.

Con la musica leggera aveva scoperto come spostare il “basso” verso l’ “alto” («Mettere nell’arrangiamento qualcosa di superiore al brano»), con il cinema imparerà a fare anche il contrario, con un ansia ed un appetito sempre più virtuoso, al punto che diverrà impossibile distinguere l’uno dall’altro: lo scricchiolare del legno, il fischio, la frusta, la campana, l’incudine, l’armonica al posto della voce, la voce del coyote, ma anche la voce umana, soprattutto quella femminile, che esce dalla cassa armonica del corpo umano («uno strumento unico») innervano la ricerca di soundtrack poliformi, orchestrazioni ellittiche, ritmiche folli. Lo sgocciolare del pianoforte e il plettro sul basso, l’incrociare dei temi nella colonna sonora che lui racconta come la più difficile (quella del Clan dei siciliani).

In fondo, il sodalizio con Leone, quello più noto, è anche meno sorprendente dell’arte vertiginosa, e nascosta, delle tre note uniche di “Se telefonando” di Mina o del tema di Metti una sera a cena. Io, personalmente, non amo la polifonia nella giungla di Mission (che ho sempre trovato di un imbarazzante quanto involontario colonialismo: la scena e il film, non la musica), ma l’operazione è Morricone puro, prendere una cosa in un universo e scagliarlo in un altro: prendere Monteverdi o Gesualdo e delocalizzarlo in Amazzonia. E lo stesso vale per il flauto di pan, usato da Gheorghe Zamfir in Picnic ad Hanging Rock, di cui Morricone diventerà il Paganini, adottandolo per il tema, amatissimo, anche da tutti gli ascensori e i grandi magazzini del mondo, di C’era una volta in America. Ennio Morricone ha fatto musica per riviste, arrangiato da “Sapore di sale” a “Pinne fucili ed occhiali”, diretto a Sanremo e composto da autore di puro novecento nella cattedrale impervia dell’atonalità, ma nel cinema è una divinità maggiore, il “creatore di inni” e melodie che non ama la melodia.

L’eccezionale compilation di testimonianze del film (da Quincey Jones a Bruce Springsteen), sta lì a testimoniarlo. Quanti autori in qualsiasi campo, oggi, in lingua italiana, potrebbero vantare un coro di estimatori così prestigioso? Una volta Sergio Leone mentì con Kubrick che lo voleva per Arancia meccanica («purtroppo è impegnato: sta lavorando con me») per evitare che ci lavorasse. Ad un certo punto, all’apogeo del proprio potere artistico e commerciale, al culmine della sperimentazione, negli anni 70, adattò la registrazione della colonna sonora a performance dal vivo (se fosse accaduto oggi, qualcuno le avrebbe sicuramente riprese) con partiture multiple generate da schemi di improvvisazione che dirige e improvvisa dal vivo in proiezione.

Ennio di Giuseppe Tornatore, ha anche il passo vorace e la frenesia espressiva del suo soggetto (nel ‘69 fece la musica di 21 film, «scriveva musica su uno spartito come se fosse una lettera»), punteggiato da accenti memorabili: il coro grottesco e quasi blues del Giudizio universale di De Sica, la sinfonia del fuoco de I giorni del cielo di Terrence Malick, la marcetta sinistra e minacciosa, come il passo di una marionetta omicida, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, ma – è la grandezza di tutti i creatori le cui opere diventano patrimonio di tutti – ognuno potrebbe aggiungere qualcosa dalla propria playlist (io avrei inserito anche il soundtrack minimalista di La cosa di Carpenter, il tema rinascimentale del flauto de Il prato dei Taviani, la sinfonia barbarica di quello di Baària).

Ma alla fine, dopo la persuasiva dimostrazione di cosa davvero sia un un autore pop (e soprattutto di quanto Morricone stesso e la sua musica abbiano contribuito a teorizzare e definire cosa lo sia), capace di fondere il gusto di massa con l’avanguardia, l’arte con il godimento, il rumore con la sinfonia, dobbiamo a Giuseppe Tornatore questo ritratto imperdibile di un uomo mite e rinchiuso in una espressione di perenne timore, incline alla commozione, che da giovane aveva le sopracciglia di Montgomery Clift ed era capace, durante le pause da solista, in orchestra, di piccole sieste di venti secondi, la cui “mission” fu quella di diffondere, presso chiunque, la scoperta dello strumento annidato nella percussione di ogni oggetto, la contaminazione di ogni forma sonora e, soprattutto, l’idea della musica come qualcosa che, prima di una idea, di un’ambizione, di una convinzione, possiamo accogliere con felicità e abbandono.


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