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Il regista Mimmo Calopresti, profondo conoscitore di Pier Paolo Pasolini

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Cento anni, un secolo. Tanto è passato dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, venuto al mondo a Bologna il 5 marzo 1922. Artista poliedrico, trasversalmente celebrato benché scomodo, fortemente legato alla sua epoca storica, di cui portava le ferite ed esprimeva i disagi. Eppure, in grado di andare oltre il contingente, di rimanere attualissimo anche oggi, con la sua spiccata vena anticonformista, con l’animo poetico e con la capacità di leggere con anticipo i processi sociali in corso. Anzi, forse Pasolini è persino più attuale oggi di quanto non lo sia stato ai suoi tempi: è questa la provocazione che Mimmo Calopresti offre in un’intervista a LunedìFilm. Il regista, sceneggiatore e attore calabrese ha prodotto nel 2005 Come Si Fa A Non Amare Pasolini. Appunti Per Un Romanzo Sull’Immondezza.

Partiamo dal titolo del suo documentario: Come si fa a non amare Pasolini?

«È un titolo magico».

Ci spieghi.

«Trovai in un archivio materiale cinematografico inedito di Pasolini. Fu un segnale: Pasolini è sempre stata una figura ricorrente nella mia vita. È un poeta a cui è impossibile sfuggire una volta che lo hai incontrato, non ti stanchi mai di leggerlo e di ascoltarlo».

Che tipo di poeta era?

«Capace di esserlo in maniera integrale, sempre e comunque e in qualsiasi sua espressione. Questo ci crea un po’ di imbarazzo, perché nelle nostre vite abitudinarie non riusciamo ad essere così integrali. Però è ciò che vorremmo essere tutti. Ecco, Pasolini ha rappresentato questa nostra aspirazione latente. Di qui l’idea del mio titolo: come si fa a non amare Pasolini? Come si fa a non amare ciò che tutti vorremmo essere ma che spesso non abbiamo il coraggio di essere?».

Si dice spesso che Pasolini sia stato profetico. In cosa lo è stato in particolare?

«Nella sua capacità di andare oltre il tempo presente. Era atemporale. Aveva uno sguardo profetico su ogni cosa: Bernardo Bertolucci mi ha raccontato che faceva una metafora artistica anche guardando per strada un giornale o persino un frammento di immondizia sollevati dal vento».

A proposito di immondizia, il materiale che lei ha ritrovato e che ha poi utilizzato per il suo documentario riguarda un’inchiesta di Pasolini su uno sciopero dei netturbini romani nel 1970.

«Anche in questi filmati si esprime il suo animo profetico. Io in quelle persone ci vedo soltanto dei lavoratori che lottano per i loro diritti, lui invece riusciva ad andare oltre, arrivando a vederci degli “angeli purificatori” che trionfano su quella che definisce “l’immondezza” in senso lato».

Qual è stato il rapporto di Pasolini con il Sud?

«Per lui il nostro Sud era più esteso, comprendeva anche il Sud del mondo, perché ne vedeva una grande somiglianza. E poi lui nel Sud scorgeva un importante livello di misticismo, lo dimostrò scegliendo di girare al Sud Il Vangelo Secondo Matteo».

E qual è stato invece il suo rapporto con la fede?

«Se dovessi definire il Pasolini credente in una parola, lo definirei evangelico. Ci sono dei brani del Vangelo, del resto, che rappresentavano le sue ragioni di vita, come “gli ultimi saranno i primi”. E poi lui era fortemente ancorato alla corporeità, aspetto che emerge anche nei suoi film e che richiama l’importanza che nel cristianesimo assume la carne: quello cristiano è un Dio che si fa carne. Tuttavia Pasolini non era legato alla Chiesa, ma a nessuna Chiesa. Il giorno dopo la sua morte, avrebbe dovuto aprire l’assemblea del Partito Radicale, eppure lui era contrario all’aborto. Era integrale in tutte le sue contraddizioni».

Queste sue contraddizioni lo hanno talvolta reso inviso alle gerarchie cattoliche.

«In passato ho parlato spesso con Virgilio Fantuzzi, un gesuita che ho conosciuto a casa di Laura Betti e che fu amico di Pasolini. Mi ha raccontato che si concedeva con grande attenzione al dibattito sulla fede. Questo è l’aspetto di Pasolini che mi piace: aveva posizioni ferme, ma era sempre aperto al dialogo. Era una persona curiosa, anche nei confronti dei punti di vista diversi dai suoi».

A proposito, Laura Betti è stata definita la musa di Pasolini. Cosa apprezzava di lei?

«La sua bellezza non convenzionale, legata all’arte. Laura cantava, recitava dei versi, aveva una bellezza in cui corpo e coscienza erano un tutt’uno. Ecco, Pasolini riusciva a guardare le persone nella loro totalità: la sua vena profetica glielo consentiva».

Cosa direbbe Pasolini del mondo di oggi, sconvolto dalla pandemia?

«Mi aspetterei che dicesse la sua con grande forza, ma cercando allo stesso tempo di comprendere ciò che sta accadendo andando a fondo. E forse non lo capiremmo subito. È un po’ quello che è già successo: Pasolini è più attuale oggi di quanto non lo fosse nel secolo scorso».

Tanti temi sociali di cui fu antesignano oggi sono stati sdoganati. Se Pasolini fosse in vita, sarebbe ancora anticonformista?

«Sì, assolutamente. Perché certi temi sono stati sdoganati nella società, ma poi la politica cerca di fare da argine. La politica vuole conformismo. È uno scontro che ricorre nel corso della storia: le persone hanno bisogno di esprimersi nella propria individualità, ma il potere esercita sempre una pressione omologante nei confronti delle masse».

Ed è un aspetto che ricorre soprattutto oggi, con gli Stati che esercitano la loro autorità per far fronte all’emergenza sanitaria?

«Esatto. In questo momento è importante accettare le regole, per carità però è sempre frustrante per le persone non poter prendere parte alle decisioni che poi riguardano la loro vita. Pasolini avrebbe saputo raccontare bene questo aspetto».

E seppe raccontare bene, ai suoi tempi, la società dei consumi che oggi, con l’avvento del digitale e del commercio online, è esplosa.

«Il pericolo che lui denunciava ai suoi tempi è più attuale che mai: il consumismo globale è spesso basato sullo sfruttamento e ci rende omologati. L’essere umano dovrebbe essere protagonista, ma protagonista nella propria individualità. Invece il protagonismo di oggi, che spesso spopola nelle dirette social, è quello dell’omologazione: tutti nel mondo comprano gli stessi abiti, si esprimono allo stesso modo. Pensiamo di essere all’avanguardia, ma siamo soltanto più soli, estraniati, incollati davanti a uno schermo».

Questa solitudine è rappresentata anche dalla crisi delle sale cinematografiche?

«Certo. Riprendo un aspetto pasoliniano, che ho citato prima: il cinema risente del nostro cambio di abitudini, del nostro diverso rapporto con il corpo. In questi due anni ci sono mancate le relazioni umane, gli spostamenti fisici. E abbiamo sopperito attraverso il digitale. C’è gente che fa l’amore su internet! Ma è un surrogato! L’espropriazione del corpo è il disastro del tempo presente. Dobbiamo tornare ad apprezzare le relazioni umane e i luoghi fisici, cinema compresi».


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