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Giorgio Porrà, giornalista, autore e conduttore televisivo

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«HO LA fortuna di avere direttori ed editori disposti a mettere in discussione l’inviolabilità divina del pallone apprezzando il mio modo di raccontarlo, approcciando qualcosa che altri prendono sul serio in modo diverso. Non migliore, diverso. Il calcio lo amo anche io, ma lo prendo per quello che suscita e che forse è: emozioni e bellezza».

Da qualche anno a questa parte c’è un modo nuovo di raccontare lo sport nazionalpopolare più seguito e amato del Paese. Una narrazione ben più ampia e articolata, quindi affascinante, che del calcio trascura l’aspetto più cronachistico per approfondire aspetti poco conosciuti perché apparentemente lontani. Accanto alle moviole e al fuorigioco ci sono straordinarie interpretazioni e azzardati ma suggestivi accostamenti che, del pallone, celebrano proprio la “sacralità”. Storie senza le quali il calcio non sarebbe così bello.

Uno di questi artefici, è Giorgio Porrà. Giornalista, studioso, conduttore, autore, straordinario conoscitore e appassionato di cinema, arte, letteratura, musica e cultura in generale. Le sue trasmissioni su Sky Sport e Sky Arte non parlano di grandi giocatori o allenatori, ma di uomini in un contesto storico culturale ben definito che lui stesso va a ricercare. Nelle trasmissioni di Giorgio Porrà il cinema è sempre straordinariamente presente.

Porrà, il suo modo di raccontare il mondo del calcio è davvero unico, non è mai soltanto il resoconto di una partita, ma la sublimazione di un gesto atletico comparato ad una pennellata, ad un piano sequenza, ad una performance artistica o ad un brano letterario.

«Mi interessano le contaminazioni. Del calcio amo il gesto, la storia, l’epica, il personaggio, e mi piace fare accostamenti tra grandi calciatori o altri meno fortunati con il mondo dell’arte, della letteratura e del cinema. Come puoi non pensare a Dorian Gray e, in generale, all’opera di Oscar Wilde, di fronte al culto del corpo di CR7 dentro al quale si fondono idea e azione come nel futurismo di Marinetti? Gli esempi da fare sarebbero tanti. C’è sempre un filo rosso che si lega ad un altro filo rosso, suggestione a suggestione, meraviglia a meraviglia, e questa è la ragione per la quale il calcio è forma d’arte al pari delle altre grandi espressioni. La cosa mi interessa molto, perché richiede studio e ricerca».

Iniziò tutto 20 anni fa ai tempi de “Lo Sciagurato Egidio”.

«Fu una trasmissione avveniristica, innovativa e rivoluzionaria. Prendeva il titolo dal soprannome che Gianni Brera diede a Egidio Calloni, attaccante del Milan degli anni 70 divenuto, suo malgrado, famoso per l’alto numero di gol che sbagliava. Fu un’esperienza innovativa per tante ragioni: si parlava di calcio ma erano bandite moviole e polemiche, si partiva dai libri di Marias, Soriano, Pasolini, Valdano, Sepulveda, Brera, Arpino o memoriali outsiders, Vendrame e Zigoni, per ragionare attorno al pallone e al suo ruolo nel mondo. Oppure prendevamo spunto da un film, con Tatti Sanguineti come stravagante guida, per individuare le connessioni più spettacolari come il prodigio di Maradona a Messico ’86, il piano sequenza più efficace e riuscito nella storia del cinema».

Ci racconti degli aneddoti.

«Altre volte l’ispirazione ce la dava una canzone, come nella puntata in cui fu ospite Battiato, per tracciare percorsi anche musicali. Inoltre avevamo negli ex fuoriclasse, figure funzionali al racconto: Vialli che si occupava delle recensioni letterarie, Altafini, Bergomi e Paolo Rossi della storia del calcio. Quando le circostanze lo richiedevano si virava con piacere anche sull’inchiesta come facemmo nella puntata sulla tragedia dell’Heysel. In un’epoca di Processi e di talk molto seriosi, quel programma si distingueva per i toni che usava, per i servizi su giocatori che non erano Pelé o Maradona ma che avevano una bellissima storia da raccontare».

Oltre a Tatti Sanguineti come commentatore c’era anche Carmelo Bene.

«A testimoniare come una cosa popolare e “di poco conto”, di massa, potesse essere appannaggio anche di una élite culturale. L’anima di quel format si è sempre agitata nelle successive produzioni di cui ho fatto parte. Anche adesso ne “L’uomo della Domenica”, il cui impianto narrativo è molto simile a quello dello Sciagurato. Passa dai ritratti di Maradona e Baggio, Ibrahimovic e Lukaku, alle storie legate al Giorno della Memoria o alla caduta del Muro di Berlino. L’ultima puntata, “Giovinette”, era incentrata sulla prima squadra di calcio femminile in Italia nel ventennio fascista, con il feroce ostruzionismo del regime».

Negli anni successivi ha fatto soprattutto un lavoro inverso portando la cultura, quella sì spesso elitaria, nei racconti di pallone. Mi verrebbe da dire che ha contribuito a pedagogizzare le masse, in questo caso gli ultras.

«Quando ho cominciato a immaginare programmi in controtendenza non intendevo sfidare nessuno, semmai soddisfare un’urgenza personale. Paragonare Pirlo a Kubrick, Totti a Pasolini sono degli azzardi, non c’è dubbio. Ma bisogna pur prendersi delle responsabilità e alzare l’asticella. Magari fornendo qualche esempio letterario o cinematografico. Mondi lontani possono diventare paralleli e le masse appassionarsi a qualcosa che ora sentono meno sconosciuto. Il fatto che abbiano funzionato ha dimostrato che quella urgenza non era solo mia. Con il nostro programma forniamo un’alternativa, non ho mai coltivato la pretesa di indirizzare gusti o abitudini, ognuno di noi fa l’uso che crede. Il telecomando è uno dei pochi strumenti davvero democratici che abbiamo a disposizione».

Cosa hanno in comune Pirlo giocatore e Kubrick?

«Erano allo stesso modo espressioni di una padronanza assoluta, tanto a centrocampo quanto dietro la macchina da presa. Concentrati e perfetti, direi impeccabili. Folgoranti nella loro bellezza estetica. Due giocatori di scacchi che hanno licenza di impiegare metà del loro tempo per fare una mossa, che sia una giocata o una scena. Perché sanno che potrebbe decidere la partita, in un modo o nell’altro».

Su Pirlo ha anche detto “nei suoi piedi un rosario di sentenze appese al collo delle squadre avversarie”. Lei tira di fioretto in un ambiente che si prende a mazzafionde.

«Non sono l’unico. Ci sono programmi come “Sfide” e, recentemente, altri approcci al tema come il mio. Quello di Federico Buffa che ha solida impostazione teatrale e spiccata attitudine al racconto del Mito, e quello di Matteo Marani che è un fenomeno nel cucire inchieste rigorose, grazie anche alla sua eccezionale memoria storica. Questo nostro modo di inserire il calcio in qualcosa di più ampio ci accomuna. Siamo narratori con diverse modalità di storytelling e, grazie a Sky, una grande libertà editoriale. Mi chiedeva di Totti e Pasolini…».

Sì, esatto.

«Totti ha una faccia pasoliniana, sarebbe stato un Ragazzo di Vita negli anni 50, tra le baracche e le periferie grazie alle quali il grande intellettuale scrisse i primi romanzi e girò i primi film. La faccia di Totti ragazzino è quella di Ninetto, candido, puro, generoso, innamorato della vita e spensierato. Quei primi piani stretti sul volto del Pupone di Porta Metronia mi fanno pensare alle comparse sedute ai bar di Accattone o agli apostoli di periferia de Il Vangelo Secondo Matteo. Totti e Pasolini poi sono due geni rivoluzionari del proprio mestiere, due artigiani-artisti immensi».

E Gigi Riva?

«Chiedere ad un cagliaritano di Gigi Riva è come parlare ad un genovese di De André o ad un napoletano di Troisi, Eduardo e Pino Daniele. Gigi Riva ha unito la Sardegna all’Italia, non c’è altro da aggiungere. O forse ci sarebbe moltissimo ma meriterebbe una puntata a parte».

Un appassionato di cinema come lei cosa prova a vedere le sale chiuse, soprattutto quei cineclub che rappresentano per un quartiere o un paese un presidio culturale?

«Una grande sofferenza. Mi auguro che possano riaprire al più presto e che la gente torni a riempirle come e più di prima. La sala ha una dimensione quasi sacra, con la sua intimità condivisa, il salotto è un’altra cosa ma penso che le due situazioni possano tranquillamente convivere anzi, che siano obbligate a farlo, visto che la tendenza è tracciata da tempo, con la crisi del cinema a indirizzare anche le grandi major verso la costante produzione di serie destinate al piccolo schermo».

Che tipo di film ama guardare?

«Sono un appassionato del cinema francese in generale, dalla Nouvelle Vague alla commedia sofisticata degli ultimi decenni. Non capisco perché le commedie italiane siano tutte così uguali, semplici, banali. Mi sembra che il cinema italiano non voglia osare troppo. Ha trovato una comfort zone dalla quale ha timore di uscire. Quei pochi registi bravi al secondo film si sentono già autori e cominciano ad essere manieristi, compiacendosi di se stessi. Magari mi sbaglio, spero di essere smentito».

Il suo regista preferito?

«Truffaut sicuramente. E il mio film del cuore è I 400 colpi: la scena finale è un capolavoro».

Il caso vuole che in uno dei titoli più belli della storia del cinema ci sia una partita di pallone, proprio nella sequenza che ha citato, quando il giovane protagonista approfitta della disattenzione dei sorveglianti del riformatorio, per allontanarsi e fuggire.

«Una lunga corsa forsennata fino al mare, che non aveva mai visto prima. Lo sguardo di Antoine verso lo spettatore siamo noi. Uno sguardo di dolore, ma privo di retorica. Un ragazzo pronto a vivere l’età adulta».

Il suo film sul calcio?

«Senza dubbio L’uomo in più, l’opera prima di Paolo Sorrentino. L’episodio liberamente ispirato alla vicenda di Agostino Di Bartolomei, racconta perfettamente un ambiente come nessun altro è stato capace di fare. Perché quando si parla di calcio c’è da tenere presente quel che ruota intorno, fatto di poca umanità e tanto cinismo. Persone che, loro malgrado, il più delle volte diventano personaggi dostoevskijani».

E Fuga per la vittoria?

«Bellissima la rovesciata di Pelé o la parata di Stallone, non c’è dubbio. Film stupendo ma non sul calcio, piuttosto con un momento di calcio dentro ad un grande film sulla Seconda Guerra Mondiale, la Shoa e la follia nazista. Ma la solitudine di Andrea Renzi, l’attore che interpreta Antonio Pisapia nel film di Sorrentino, i suoi colloqui con i dirigenti, le sue ambizioni, la sua frustrazione e disperazione, fatico a ritrovarle altrove».

Dal 19 febbraio è in onda una nuova puntata de “L’uomo della Domenica” disponibile on demand su Sky e NowTv.

«È incentrata sulla figura di Stefano Pioli, allenatore del Milan, con i consueti riferimenti letterari e cinematografici. S’intitola “Il Potenziatore”, un allenatore che non ha imposto sé stesso ma ha valorizzato il gruppo e i fuoriclasse. E ora si giocherà lo scudetto fino all’ultimo. La sua sfida per il vertice ha il sapore di Tex Willer».


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