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Pupi Avati e Renato Pozzetto sul set di “Lei mi parla ancora”

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L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Si condensa tutto nei versi di Cesare Pavese il viaggio interiore di Lei mi parla ancora, l’ultima fatica del maestro Pupi Avati. Così, come i “Dialoghi di Leucò” indagano il mistero dell’amore, la poesia e l’ineludibilità del destino umano anche il film – tratto dal romanzo autobiografico di Giuseppe Sgarbi – esplora la necessità del dolore, l’irrevocabile condanna della morte con la promessa però, di un’immortalità nella corrispondenza di “amorosi sensi”.

La prima assoluta è su Sky Cinema, questa sera, dove rimarrà disponibile on demand e fruibile anche in streaming su NowTV. Protagonista un sorprendente e intenso Renato Pozzetto nei panni di Nino, al suo fianco Stefania Sandrelli in quelli di Rina, che si alternano con Isabella Ragonese e Lino Musella nei ruoli dei due protagonisti da giovani. Accanto a loro Fabrizio Gifuni, che interpreta il personaggio di Amicangelo (il ghost writer che aiuterà Nino nella stesura delle memorie e che diventerà suo amico e confidente), Chiara Caselli, Alessandro Haber, Serena Grandi, Gioele Dix, Nicola Nocella. L’opera è prodotta da Bartlebyfilm e Vision Distribution.

Scritto da Pupi Avati con il figlio Tommaso, Lei mi parla ancora è una storia d’amore e di famiglia che, per 65 anni, ha unito Nino e Caterina, genitori di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi, custodita nel ricordo di lui dopo la scomparsa dell’adorata compagna.

L’unica immortalità che ci è concessa è il ricordo. È da qui che ha inizio il suo racconto.

«È un tema inedito, non compare nel romanzo originale. Mi sembrava una riflessione inclusiva rispetto al concetto su cui ruota il racconto: l’idea del “per sempre”. Un’espressione che non si usa più. Io appartengo a un’epoca in cui si diceva magari, solo per abbellire un sentimento. Era un modo per nobilitare i rapporti, ma non si aveva timore di pensare che un affetto potesse durare per l’eternità. Ora, si usano troppe cautele, piccole vigliaccherie e così non ci si impegna fino in fondo. Io ho la profonda convinzione invece, che le unioni si impreziosiscano proprio nel tempo».

Come si è avvicinato a questo romanzo?

«Un mio caro amico me lo ha inviato pregandomi di leggerlo. Ed è stato illuminante, il concetto di eternità di un amore mi sembra quasi “scandaloso” per i tempi in cui viviamo. Un vecchio che ostinatamente sostiene che la storia d’amore con sua moglie non sia finita nonostante la morte, mi è parsa interessante. In realtà, è la prima volta che realizzo un film ispirato a un libro e ad un’esperienza altrui. Ho cercato il ghost writer di Giuseppe Sgarbi, siamo diventati amici e lui mi ha raccontato come è nato questo libro. Il solo modo per appropriarmi di questa storia è stato quello di raccontare la genesi del romanzo, come è stato scritto».

L’amore per l’arte, per la poesia sono il collante dell’affinità elettiva di Nino e Rina. Una tenerezza che spiazza lo spettatore così come lo scrittore Amicangelo si sente a disagio di fronte alla granitica ostinazione di Nino a non voler lasciare andare il ricordo della moglie. Anziani che hanno occhi di “fanciulli” di pascoliniana memoria. È così?

«La mia formazione è profondamente legata alla poetica di Pascoli. In questo film cito “Myricae” ma in quasi tutti i miei lavori compaiono riferimenti alla sua poesia. Condivido la visione del “fanciullino”. Il desiderio profondo di continuare ad illudersi, nascosto in un angolo dell’anima di ognuno di noi».

Renato Pozzetto interpreta con intensa commozione il personaggio di Nino. Le ha regalato uno straordinario ruolo drammatico.

«La sua interpretazione è un vero e proprio miracolo. La prima volta che ho raccontato la storia del film a Renato ha pianto. Mi ha confidato di aver perso, pochi anni fa, sua moglie e quanto fosse difficile tuttora convivere con l’assenza di lei. Renato è stato estremamente generoso. Non ha mai realmente recitato, ha replicato sul set il suo dolore privato. Lo ha messo al servizio del film. Per questo lo ringrazio profondamente».

Non è la prima volta che “rigenera” attori che il grande pubblico conosce in una veste completamente diversa. Comici nell’immaginario collettivo che dirige sorprendendo gli spettatori, offrendo interpretazioni inaspettate. Da Diego Abatantuono, Carlo Delle Piane a Chirstian De Sica.

«È una sfida che affronto sempre con timore e apprensione. Così come sono preoccupati gli attori che accettano questa prova rinunciando a tutte le loro certezze. Questo dà molto senso al mio lavoro».

In questo film tornano i temi cari al suo cinema. L’amore per la musica, le suggestioni oniriche della provincia bolognese.

«La musica è necessaria ha una capacità evocativa fortissima, forse più dell’immagine. Le canzoni di un’epoca sono la chiave che ti spalanca un mondo. Gli anni 50 sono il periodo in cui sono nati i miei archetipi. Ricostruire quei decenni mi viene estremamente facile. Così, come l’area geografica in cui ho girato tra Ferrara, Ro e Riva del Po mi è particolarmente familiare».

Nella sua lunga carriera ha incontrato grandi autori Bernardo Bertolucci, Alberto Moravia, Giuseppe Patroni Griffi e Pier Paolo Pasolini. Con quest’ultimo ha collaborato alla sceneggiatura di Salò e le 120 giornate di Sodoma.

«Ho un particolare affetto per Pasolini, era l’ultimo film che ebbe occasione di dirigere. In quel periodo lo andavo a trovare spesso e ricordo la sua generosa accoglienza. Mi permise, per due mesi, di vivere questa straordinaria collaborazione. Non capita facilmente di potersi confrontare con un regista del suo spessore culturale. Ho imparato tanto da lui ed ho capito che i veri grandi sono quelli che riescono a comunicare con estrema semplicità. Con Pasolini ho avuto un’intesa immediata, ho capito subito cosa avrei dovuto scrivere anche se è stato infinitamente duro affrontare la crudezza del suo racconto».

Lei è uno dei pochi registi italiani che si è misurato con il cinema horror. Forse sarebbe più corretto dire “gotico”.

«Purtroppo i film di genere in Italia non si fanno più. Un errore gravissimo. Negli anni 70 e 80 siamo stati maestri dell’horror. Io nonostante tutto ho continuato, ogni dieci anni, a girare un film di genere. È lì che ci si misura con i fondamentali del cinema. È un modo per rasettarmi, per rimettermi in discussione».

E il suo progetto su Dante?

«Purtroppo è arenato. È dal 2003 che attendo di girare questo film. Siamo entrati nel 2021, nell’anno che commemora i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, e ancora, per impedimenti burocratici, Rai Cinema non sblocca il progetto. Dovrei essere sul set di Dante e invece sono a casa disoccupato. È scandaloso che non si senta la necessità di portare sul grande schermo la vita del più grande poeta italiano».

Si è schierato in difesa dell’esercizio cinematografico, qualche giorno fa ha fatto appello al mondo del cinema invitando a una task force per riportare gli spettatori alla visione in sala.

«Continueremo a fare film. Le piattaforme offriranno grandi opportunità a noi autori. Ma non va sottovalutata la profonda crisi dell’esercizio che solo in parte può essere risolta con i ristori per la chiusura. La sostituzione, con il divano di casa, del piacere “nostalgico” di sedersi accanto ad altre persone e attendere il buio in sala, va impedita. Dobbiamo scendere in campo noi registi, autori e attori. Accompagnare i nostri film nelle sale, soprattutto quelle di profondità. È necessario creare eventi, potenziare il concetto di esperenzialità e condivisione della sala. Non dobbiamo lasciare soli al loro destino questi coraggiosi Don Chisciotte, gli esercenti».

L’amore per il cinema è anch’esso una promessa di eternità?

«Lasciare una traccia di sé è cercare di garantirsi l’immortalità. Io vengo dalla cultura contadina in cui ricordare anche soltanto i nomi dei propri cari diventa una preghiera. Quando faccio un film, l’onomastica la traggo tutta dalle persone a cui sono stato legato. I miei amici, i miei colleghi di lavoro, coloro con cui ho condiviso la passione per la musica. Dando i loro nomi ai personaggi che popolano i miei film, io tengo in vita chi ho amato».


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Fabio Grandinetti

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