Miriam Leone e Pierfrancesco Favino in una scena di Corro da te
6 minuti per la letturaUn’altra commedia romantica? Non esattamente. Corro da te di Riccardo Milani, in sala da giovedì 17 marzo al cinema con Vision Distribution, è soprattutto una storia d’amore divertente con una buona dose di “politicamente scorretto” insito nella vita di tutti i giorni.
Nel film, in cui Pierfrancesco “Picchio” Favino e Miriam Leone sono i protagonisti di un racconto che ha per sfondo il tema della disabilità, c’è anche molto cinismo ma, per quanto possa sembrare un ossimoro, si tratta di un cinismo sano, quasi catartico. Ispirato a Tutti in piedi (Tout le monde debout), film del 2018 scritto, diretto ed interpretato da Franck Dubosc, Corro da te è la storia di Gianni (Favino), imprenditore di successo di un noto marchio di calzature sportive, che all’improvviso – come dice lo stesso Favino – fa «un salto mortale da un’altezza notevole». Gianni è un quasi-cinquantenne affermato, ricco e ancora attraente, con un fortissimo debole per le belle donne e le relazioni occasionali. La sua passione sta soprattutto nella seduzione, non c’è donna che non cada nelle sue trappole. Di questo Gianni va spudoratamente fiero, al punto da arrivare ad accettare una sfida tanto meschina quanto difficile: sedurre un’affascinante ragazza disabile. Chiara, la sua vittima, interpretata da Miriam Leone, però è una donna forte, indipendente e intraprendente, è una violinista, gioca a tennis e non lascia che la sua disabilità le impedisca di avere una vita piena. In Corro da te Favino si cimenta con entusiasmo e convinzione in un ruolo all’apparenza terribilmente scorretto: Gianni è un cinico che non si fa troppi scrupoli a disprezzare le persone disabili, nemmeno di fronte alla possibilità di fingersi disabile lui stesso pur di far cadere ai propri piedi la sua ennesima preda. Ma questo personaggio in realtà cela delle verità importanti che Pierfrancesco Favino spiega con acume, passione e con la consueta simpatia che lo contraddistingue.
Favino, chi è Gianni?
«Gianni siamo tutti noi. La nostra società è fatta di tanti Gianni che non hanno il coraggio di ammettere di esserlo. È il motivo per cui ho abbracciato questo personaggio e ho chiesto che fosse anche più cinico del dovuto. Ho molto amato tutti i suoi difetti, perché in fondo è un po’ un coacervo di cose che riguardano tutti».
Perché siamo tutti un po’ Gianni?
«Perché non vediamo davvero le persone disabili, non le vogliamo vedere, ma non volendo vedere loro non vediamo noi stessi».
Conosceva già l’originale francese da cui è tratto il film?
«Sì, l’avevo visto e la storia mi era molto piaciuta. Trovavo che fosse un bellissimo modo di raccontare la disabilità e che guardasse a questo tema in una maniera non pietistica, molto diretta, senza problemi. Quando Riccardo me ne ha parlato, sono stato da subito molto attratto dall’idea di poterlo fare. Mi ha fatto leggere la sceneggiatura e mi è piaciuta molto. Abbiamo deciso addirittura di esacerbare un po’ i toni del cinismo di questo personaggio, prendendo spunto dalla commedia all’italiana più che da quella francese».
Si è sentito in imbarazzo nell’interpretare questo ruolo?
«No, affatto, mi sono divertito moltissimo. Gianni è imbarazzante con una visione ottusa. Non ho mai avuto problemi all’idea di interpretare un personaggio così negativo. Credo che il cinismo di questo personaggio, portato all’estremo, in realtà sia rappresentativo di un cinismo molto diffuso e spesso mascherato da ipercorrettismo, a volte anche da pietismo. Questo film, invece, non è mai pietistico e penso che sia la cosa migliore per rappresentare le cose come sono».
Cos’è la disabilità secondo lei?
«Il vero disabile nella storia è Gianni. È un narcisista ossessionato dal successo e dalla paura di invecchiare, è incapace di guardare le persone e vede solo ciò che queste rappresentano per lui. La disabilità in realtà è uno specchio della nostra paura. Non è una qualità dell’essere umano, è qualcosa che è accaduto o che potrebbe accadere, ma non determina ciò che sei come persona».
Il film affronta un tema delicato e rischioso, come vi siete preparati a realizzarlo?
«Attorno a noi avevamo le associazioni di disabili che ci hanno accompagnato per tutto il film, per cui eravamo rassicurati dal fatto che, grazie al loro supporto, stavamo facendo la cosa giusta. Ci hanno dato la licenza di parlare in maniera molto aperta di questo tema e ci hanno fatto sentire liberi di poter affrontare questo argomento chiamando le cose con il loro nome. Siamo in un momento di grande ipercorrettismo e di greenwashing generale in cui non si possono dire alcune cose. Questo film invece è liberatorio e sarei felice se i disabili si trovassero rappresentati in esso».
Cosa le ha lasciato questo film?
«Mi ha rafforzato in una convinzione che già avevo: guardare al di là delle cose. Inoltre, c’è in questo film un’intelligenza di scrittura e di realizzazione che lo rendono non solo una commedia leggera, ma un racconto di raro equilibrio».
Rispetto ad Alexander, protagonista del suo precedente film, Promises di Amanda Sthers, Gianni è un personaggio quasi all’opposto, pur essendo entrambi coinvolti in una importante relazione amorosa. Lei a quale dei due somiglia di più?
«Penso di essere a metà tra i due. Tendenzialmente sono un timido, malinconico, però cerco di sfuggire a questa cosa con la simpatia, con la battuta, con l’essere un po’ compagnone. Non sono all’estremo né dell’uno né dell’altro, ma bisognerebbe chiederlo agli altri, non a me».
Anche lei mente?
«Sono stato anche io una persona che ha detto un sacco di cazzate nella vita. Ho usato bieche tattiche per riuscire a conquistare le persone, dopo di che, come Gianni, “sulla via di Damasco” sono rinsavito. In fondo anche Gianni ha una sua forma di romanticismo, che non sa gestire, ma ce l’ha anche lui».
Che tipo di seduttore è lei?
«Ho sempre pensato di essere una persona di compagnia, forse adesso sto cambiando, ma da ragazzo ero uno che tendenzialmente per sedurre cercava di far ridere».
Il film esce in un momento storico particolarmente tragico in cui è stata coinvolta anche l’arte con diverse forme di boicottaggio. Cosa ne pensa?
«Penso che l’arte non debba avere confini. I russi non sono Putin. Leggevo una lettera di Lev Dodin, un grandissimo regista teatrale russo di 77 anni, che pregava Putin di smetterla. Non dobbiamo commettere questo errore, non possiamo commettere questo errore. La letteratura, la musica, il cinema, anche quelli russi, sono patrimoni dell’umanità e gli artisti, in una percentuale schiacciante, hanno sempre cercato la pace».
A breve la vedremo protagonista in altri due film: Il colibrì di Francesca Archibugi e Nostalgia di Mario Martone. Che ruoli interpreta?
«Sono state due esperienze meravigliose, diversissime l’una dall’altra. Entrambi i film sono tratti da romanzi, ma diretti da due registi molto differenti tra loro. Si tratta di due storie molto distanti, ma ho amato moltissimo tutti e due i personaggi, sono esseri umani messi in condizioni difficili. È stato un altro privilegio poterli interpretare. Ora mi prendo un po’ di tempo, che ritengo necessario e sacrosanto, di ricarica mentale soprattutto in questo periodo».
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