Gigi Proietti
5 minuti per la letturaAlla fine della prima di uno dei suoi spettacoli storici, A me gli occhi, please, Gigi Proietti chiese alla madre se le fosse piaciuto. La madre rispose con un ghigno: “abbastanza”. È uno dei tanti aneddoti che ascoltiamo nel documentario Luigi Proietti detto Gigi di Edoardo Leo, in uscita evento per una settimana al cinema, dal 3 al 9 marzo (prodotto da IIF e distribuito da Nexo).
È una frase che descrive bene quell’understatement tipico di Gigi Proietti, quel restare con i piedi per terra, non sentirsi mai divo, quello schernirsi e ridere di se stesso. «In uno dei suoi libri, “Il Decamerino”, diceva che siamo nell’epoca dei superlativi» ci ha raccontato Edoardo Leo. «Non basta dire: bravo. Bisogna dire: straordinario, genio assoluto. Alla fine di A me gli occhi, please tutti mi dicevano straordinario, mia madre mi ha detto: mi è piaciuto abbastanza. È un modo di essere ancorato al reale, di restare con piedi per terra». Gigi Proietti è stato un artista che forse ha avuto meno di quello che meritava. «La sua figura di comico ha preso il sopravvento su altri aspetti» ci ha spiegato Leo. «E una parte della critica lo ha un po’ sottovalutato. Quando si parla di direttori di teatri poche volte viene in mente la figura di Gigi, un grande intellettuale. Quando poteva aprire una casa per se stesso ha deciso di aprire un teatro per tutti, dove fare solo Shakespeare».
A questo proposito, nel film sentiamo dire che è Gigi che è mancato al cinema, e non il cinema a Gigi. «È una cosa un po’ curiosa» riflette Leo. «Gigi ha fatto pochi film, ma quelli che ha fatto sono cult, Casotto, Febbre da cavallo, alcuni film molto complessi con Tinto Brass. Il cinema che ha fatto lo ha fatto benissimo, per un uomo così legato al teatro che ogni anno si imponeva mesi e mesi di spettacoli e tournee, negli ultimi anni ha fatto molto cinema”.
Ma Gigi era così. Aveva quel suo understatement, applicava a ogni cosa un suo controcanto, smontava se stesso. “Non ho la tempra del divo, diceva spesso, gli veniva da ridere” ricorda con affetto Leo. “C’è un’altra cosa molto curiosa: quando ci si approccia ad artisti di quel tipo gli si dà del lei, lo si chiama Maestro. Gigi lo chiamavano tutti Gigi. Non era una lesa maestà, lui ti permetteva questo. Ho chiamato il documentario Luigi proietti detto Gigi, per questo. Le maestranze lo riconoscevano come uno di loro anche se era un artista, un intellettuale”.
Il documentario racconta anche dei momenti amari nella carriera di Proietti. Uno è stato il Teatro Brancaccio, che ha diretto due volte, e per due volte si è visto sollevare dall’incarico. Lui ha sempre risposto con un no comment, soprattutto quando, la seconda volta, si è visto sostituire da Maurizio Costanzo. Ma è stata una grande ferita. «Dobbiamo ricordare che, quando lo prese, il Brancaccio era uno spazio vuoto, un teatro da 1400 posti abbandonato a Via Merulana, al centro di Roma, e lo ha ridato ai romani. Ha riaperto a febbraio, all’ improvviso, e venivano i pullman dalle periferie per vedere gli spettacoli. La seconda volta che glielo hanno tolto è stata una ferita, ma non per lui: aveva dato un teatro ai romani e gli dispiaceva per loro. Gli ho chiesto in maniera diretta di questo fatto e ha glissato. Io ho trattato la cosa con il giusto rispetto».
L’altra nota dolente è stata la televisione. Il suo Fantastico 4 è stato un insuccesso, di cui ha sofferto molto. Ma poi si è rifatto con gli interessi. «Quello con la tv è stato un rapporto contraddittorio» commenta Edoardo Leo. «Le prime cose che ha fatto sono molto sperimentali, e sono stupito di cosa facevamo negli anni Sessanta e Settanta in televisione: si portavano i ragazzini a vedere Don Chisciotte, si recitava in diretta con i bambini che potevano interrompere e fare domande». «Quando è diventato un One Man Show ha fatto cose molto riuscite, pensiamo a un personaggio come Toto. Fantastico 4 fu considerato il più brutto Fantastico della storia, lui uscì con le ossa rotte da quell’esperienza: i tempi televisivi gli sembravano impossibili. Si metteva al servizio della televisione: quando poi è diventato così grande è la tivù che si è messa al suo servizio».
Edoardo Leo ha recitato diretto da Gigi Proietti, proprio in quella prima stagione del Teatro Brancaccio, in Dramma della gelosia, versione teatrale del celebre film. Viene spontaneo chiedergli che cosa gli abbia insegnato Proietti, che però, proprio nel suo documentario, dice che la recitazione non si insegna, si impara. «L’unica cosa da fare è prendere gli altri e farli lavorare su se stessi» commenta Leo. «Il talento non si può infondere con una siringa, ma quel talento lo devi allenare. Gigi non tentava di insegnare niente, cercava solo di spiegare ai ragazzi l’etica del lavoro, il rispetto del pubblico. La cosa che credo di aver imparato da lui, vedendolo in scena e fuori scena, è quanto fosse rispettoso del pubblico, e rispettoso del suo mestiere». «Lei pensa che Shakespeare sia popolare?». «Beh, no». «Arrivederci». È il discorso tra Gigi Proietti e una signora, riportato nel film.
Luigi Proietti detto Gigi riflette proprio sul concetto di popolare. «La parola popolare la abbiamo svuotata di significato» commenta Edoardo Leo. «Popolare è un concetto altissimo. Gigi Proietti ha cercato di dare dignità a quel termine. E in questo è significativo il Globe Theatre. Ha cercato di fare da tramite per portare il pubblico a rivedere qualcosa che appartiene loro. È un teatro popolare all’interno di una villa che è Borghese. In platea, davanti a tutti, ci sono quelli che pagano di meno».
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