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Keanu Reeves torna a vestire i panni di Neo in “Matrix”, giunto al quarto capitolo (dal 1 gennaio nelle sale)

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Poco c’è mancato che Neo, l’Eletto che sta per tornare sugli schermi nelle sale di tutto il mondo dal 1 gennaio 2022, avesse sul volto il sorriso sornione del principe di Bel-Air: Keanu Reeves ha apertamente ringraziato Will Smith per non aver scelto di interpretare il protagonista del film delle sorelle (al tempo, fratelli) Wachowski, The Matrix (1999), optando per un ruolo nel cult trash Wild Wild West.

Tralasciando l’opportunità della decisione, il quarto capitolo della (ex) trilogia nata dal genio di Lana e Lilly Wachowski si intitolerà The Matrix Resurrections, scritto dalla sola Lana e atteso più del messia stesso. Anche se l’attesa non è paragonabile a quella per ogni capitolo della Marvel Cinematic Universe, la notizia della lavorazione del film ha accesso un hype non indifferente: il trailer lascia capire ben poco, così come le notizie trapelate, su cosa aspettarsi dalla trama e, nelle poche immagini trapelate, possiamo vedere Thomas Anderson in terapia e senza ricordo della matrice, salvo vederlo successivamente incontrare Trinity, senza riconoscersi. Fatto sta che nel 2003 avevamo lasciato i protagonisti morti, mentre pare che li ritroveremo ben vivi anche se sotto altre identità nella matrice.

Le speculazioni su Resurrections ovviamente si sprecano, specie dopo un video di Lilly del 2020 che lasciava intendere il film sia una metafora transgender; ma se Morpheus ci ha insegnato qualcosa, è che ognuno si crea la (propria) realtà. O meglio, la realtà di cui ha bisogno.

Alla sua uscita, il primo capitolo della saga incassò la cifra monstre di 495 milioni di dollari – a fronte dei 63 spesi –, venne premiato con 4 Oscar (sonoro, montaggio sonoro, effetti speciali, montaggio) e fu acclamato da pubblico e critica. Facendo addirittura nascere una pseudo religione, il matrixismo, ispirata dallo straripante simbolismo di cui l’opera è piena: religione che come simbolo ufficiale ha adottato il simbolo kanji (rosso, in giapponese) e onora gli insegnamenti di Abdu’l-Bahà, uno dei leader religiosi della fede bahà’ì, che insegna il valore intrinseco in tutte le religioni del mondo e l’unità di tutte le persone. La connessione con Matrix arriva attraverso il libro “The Promulgation of Universal Peace”, in cui si fa più volte riferimento al concetto di matrice, tra cui questo passaggio: “all’inizio della sua vita umana, l’uomo era un embrione nel mondo della matrice”.

Certo è che ci sono voluti cinque anni e mezzo perché le Wachowksi sviluppassero la trama del primo Matrix attraverso 14 bozze di sceneggiatura, insieme a quasi 500 storyboard tra cui scegliere l’impianto visivo del loro capolavoro; un’idea di storia venuta alle registe dopo la lettura di “Simulazione e Simulacri” di Baudrillaud, testo obbligatorio per tutto il cast; e sicuramente, ha scritto la storia degli effetti speciali il bullet time, l’innovativo (per il tempo) sistema di riprese utilizzato.

Oggi, per un Morpheus (Laurence Fishburne ha confermato di non essere stato contattato per tornare a vestire i panni di Morpheus, personaggio che a quanto pare sarà presente solo in flashback e filmati d’archivio) e un agente Smith (Hugo Weaving non ha potuto incastrare i suoi impegni sui set) assenti, ecco arrivare volti e personaggi nuovi: da Jessica Henwick a Priyanka Chopra Jonas, da Neil Patrick Harris a Yahya Abdul-Mateen II. Yahya nelle poche immagini rivelate indossa occhiali rossi proprio come Morpheus: che sia una versione più giovane del personaggio? Tanti sono le tracce e i misteri lanciati nel trailer: a partire dal personaggio di Harris, psichiatra che vieta a Keanu Reeves di utilizzare la parola sogni e con abiti e montatura degli occhiali che richiamano la pillola blu: pillole dello stesso colore sono contenute in un recipiente nello studio del medico, presente insieme ad un gatto nero come quello che rientrava tra i glitch che hanno spinto Neo a prendere consapevolezza della matrice.

Si intravede poi, nell’ordalia frenetica di immagini, un uomo barbuto con occhi ricoperti dal tipico codice binario verde; enormi ragni robotici; e un libro, Alice In Wonderland, la cui proprietaria (la Chopra) ha occhiali rossi, probabilmente richiamo alla pillola rossa. Che sia lei la bambina indiana –ora adulta – che alla fine di Resurrections liberava Neo? Estetica cyberpunk, latex nero e arti marziali erano quindi il vestito con cui le registe hanno riempito, all’alba del nuovo secolo, il vuoto filosofico del cinema del nostro millennio, nobilitando e sdoganando la cultura pop mainstream veicolata dal crossover di musica, fumetti, e fetish orientale. Se il primo Matrix ha dato il via ad un vero e proprio culto, Matrix Reloaded (2003) ha fatto esplodere gli ingranaggi della trama ribadendo e confermando i presupposti pseudo sociologici e commerciali del primo capitolo.

Quella che però vent’anni fa sembrava confusione da meltin’ pot incontrollato e incontrollabile, oggi si afferma come il tentativo di creare delle nuove coordinate esistenziali nella confusione di fine secolo: non c’è confine e non c’è barriera, la parola chiave è contaminazione. Matrix scava nel nostro inconscio collettivo tirando fuori paure e fascinazioni profonde che riecheggiano la contaminazione cronenberghiana fra carne e metallo mentre l’occhio scivola tra un piacere e l’altro lievemente come due epidermidi a contatto: gli echi, da Philip Dick a Carrol fino a Pirandello e Platone, si sprecano, e avviluppano lo spettatore arricchendo inesorabilmente il serbatoio di immagini cinematografico. Copione biblico, metafilmico e mitologico, con Matrix Revolutions (2003) le Wachowski hanno poi riproposto Leibniz in salsa high-tech con la loro naturale modernità portando a compimento una sinfonia di citazioni e filosofia chiaramente ispirata al Cristo Redentore.

Come Reloaded era patinato e ultrasoft, Revolutions è sporco, rivoluzionario, intriso di sangue, nel quale la macchina acquista ripugnanza carnale tra sciami di metallo e tubi dalla vita propria; uno sbilanciamento, una poetica dell’errore, dell’insinuante, che riesce ad entrare sottocutanea aumentando il fascino di un monolito cinematografico che, si sapeva, inevitabilmente sarebbe migliorato con gli anni. Un cinema che ci insegue dal passato buddista al futuro internettiano, per un abbraccio, un bacio, un’ultima inquadratura.


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