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Paola Cortellesi

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«Monica e Giovanni sono, e continuano ad essere, due anime dello stesso Paese. Il nostro. E sono per me il modo di raccontare, attraverso il filtro popolare della commedia, da una parte l’amarezza nel vedere il mio Paese così spaccato, dall’altra il grande potenziale di condivisione e di senso della comunità che in esso vive e sopravvive, ed è lì pronto a esplodere anche più della rabbia sociale».

Così il regista Riccardo Milani annuncia l’uscita – dal 26 agosto – dell’attesissimo sequel Come un Gatto in Tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto, che vede ancora alle prese Monica e Giovanni (Paola Cortellesi e Antonio Albanese) alle prese con una commedia di costume non troppo dissimile (seppur con toni diversi) da quel mitico Ferie d’Agosto che fotografò l’Italia divisa dei primi anni 90.

Ma se lì lo sguardo di Paolo Virzì era soprattutto politico, qui è drammaticamente socioculturale. Drammaticamente sì, nonostante si tratti di commedia, e anche divertente, ma nella tradizione amara della grande scuola della commedia all’italiana, quella dei maestri degli anni 70 alla Risi, Scola e Monicelli per intenderci. Paola Cortellesi, anche sceneggiatrice nonché moglie di Milani, sa che questo film potrà tornare ad unire, con una risata, le persone davanti al grande schermo dopo un anno e mezzo di incubo dal quale purtroppo ancora non siamo del tutto usciti.

Che cosa vi siete riproposti di affrontare questa volta?

«L’ambizione è stata quella di raccontare quello che sta accadendo a una parte della nostra società, qualcosa di vero e reale che attraversa il Paese. Il primo Come un Gatto in Tangenziale portava in scena l’incomprensione tra ceti sociali opposti, questo nuovo film lo abbiamo scritto durante il lockdown ed è il frutto di una nostra riflessione su come nei momenti di emergenza passino inevitabilmente in secondo piano argomenti fondamentali, come l’accesso ad una vita culturale attiva, a uno stimolo di crescita individuale e di autonomia di pensiero critico. Non abbiamo avuto subito l’idea di un sequel del film precedente ma avevamo pensato di dar vita ad una storia di ripartenza che mettesse in scena la necessità di occuparsi sia di progetti a lungo termine sia di urgenze non rinviabili, come nella nostra nuova storia accade al personaggio di don Davide interpretato da Luca Argentero. Durante la scrittura del copione abbiamo poi considerato che sarebbe stato più semplice raccontare quello che volevamo attraverso due personaggi che conoscevamo bene e costantemente in contrasto, come Monica e Giovanni, con lo scetticismo di lei, disillusa e facile preda di un certo qualunquismo e il pensiero più lungimirante di lui, manager sinceramente impegnato nel sociale, che con il proprio lavoro sulle periferie vuole iniziare un discorso destinato a durare, con l’obiettivo di creare stimoli culturali e un’idea ampia di “bellezza” a disposizione di chi abita in luoghi troppo spesso dimenticati e lasciati a se stessi».

Come nasce il nuovo incontro tra i due protagonisti?

«Avevamo lasciato Monica e Giovanni nel finale del primo film con un punto di domanda sul destino del loro legame: la loro storia d’amore sarebbe durata “come un gatto in Tangenziale”, ovvero pochissimo. Nella nuova storia abbiamo immaginato che il loro incontro dopo tre anni di lontananza avvenga per necessità: Giovanni deve tirar fuori Monica dagli “impicci” li ritroviamo alle prese con nuove vicende e con tutti i contrasti esplosi in passato ma ancora una volta, senza saperlo, uniti da un obiettivo comune».

Avete cercato un equilibrio tra temi importanti e divertimento?

«A mio parere il linguaggio umoristico è il miglior amico dei temi importanti. Attraverso un registro divertente si può raccontare la grettezza di slogan come “con la cultura non si mangia”, la necessità di considerare ogni giardino il proprio giardino e instillare il germe della partecipazione in chi non si è mai curato della cosa pubblica e dunque della propria crescita, il diritto di avere accesso all’arte, di farsi delle domande, di incuriosirsi, di coltivare un pensiero autonomo, libero».

Avete recitato sulla base di un copione “di ferro” o mentre eravate in scena avete avuto la possibilità di inventare anche qualcosa?

«Io e Antonio ci vogliamo sostanzialmente molto bene, abbiamo lo stesso metodo di lavoro, viaggiamo in coppia e in scena ci intoniamo naturalmente, dunque è molto facile che capiti qualcosa di estemporaneo; tra noi c’è una forte intesa e le “sorprese” che a volte ci fa Antonio in scena sono un regalo incredibile ma devo dire, sempre all’interno di una “griglia” ben strutturata. Per me, Riccardo e gli altri due sceneggiatori, Giulia Calenda e Furio Andreotti, è importante che sia già tutto pensato e controllato nel dettaglio in fase di scrittura, ma non abbiamo mai avuto la pretesa di fare prediche o comizi: se a qualcuno, che guarda i nostri film arriva anche una piccola parte di quello che sentiamo di comunicare siamo felici di aver raggiunto il nostro obiettivo».

Come si è trovata con gli altri interpreti?

«Ho ritrovato con grande entusiasmo tutti gli attori del primo film a partire da Sonia Bergamasco che è Luce, prima moglie di Giovanni, in questo film molto più vicina a Monica, e da Claudio Amendola che torna nel ruolo di Sergio, l’ex marito di Monica, coatto piuttosto pericoloso ma irresistibile. Conosco e stimo Sarah Felberbaum da tanti anni e sono stata molto felice che abbia accettato di arricchire il cast con la sua interpretazione nel ruolo di Camilla, nuova compagna di Giovanni. Con Luca Argentero avevo già condiviso altre esperienze (due film, ma anche sketch surreali) per me molto importanti; con lui c’è grande sintonia in scena, è un attore e un compagno di lavoro eccezionale e averlo in questo film, nel ruolo fondamentale di Don Davide, è stata – mi passi il termine – una benedizione!».

Ricorda qualche momento particolare della lavorazione?

«Ne ricordo tanti, tutti belli, penso, ad esempio, alle scene di massa realizzate con il coinvolgimento e la collaborazione dei veri abitanti della comunità di Bastogi; si sono rivelate esplosive sia dal punto di vista del divertimento sia dell’emozione e faticose perché le abbiamo girate con una temperatura di 40 gradi portandole comunque felicemente a buon fine nonostante le difficoltà legate ai protocolli. Gli abitanti del quartiere, che in occasione del primo film ci guardavano all’inizio con una certa diffidenza, ormai sono parte della squadra, conoscono il gioco e il lavoro, si muovono con più consapevolezza davanti alla macchina da presa, in alcuni casi tante ore di preparazione e di disciplina rappresentano una buona palestra da praticare, sarebbe bello che in futuro potessero far tesoro di questa esperienza anche nella vita».


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