Leni Riefenstahl con il Führer
6 minuti per la letturaHitler le affidò budget illimitati per i suoi film: il gossip di poi sosteneva che fosse una sua amante, con il Führer impegnato in un duello amoroso con il suo ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, al quale venne (e viene) attribuita la frase che non disse mai “quando sento la parola cultura metto la mano alla pistola” (in realtà la battuta era “quando sento la parola cultura, cerco la salvezza nella mia Browning”, in una pièce di Hanss Johst, che era nazista anche lui). Ne disse e fece ben altre, Goebbels.
Mussolini le fece dare la Coppa a lui intitolata alla Mostra del cinema di Venezia, nel 1938. Lei la condivise (il premio fu assegnato in parità) con il film strappacuore Luciano Serra pilota, star Amedeo Nazzari.
Il film italiano aveva degli atouts particolari: era stato il primo, con Scipione l’Africano, pellicola famosa per le sue scene di massa e per la comparsa che interpretava un legionario e dimenticò al polso l’orologio, girato nei nuovi stabilimenti di Cinecittà, e in più il supervisore aveva un cognome di peso: Mussolini. Era Vittorio, il figlio del duce. I due vincitori della Coppa sconfissero fra gli altri Il porto delle nebbie di Marcel Carné, e il primo lungometraggio di animazione di Walt Disney, Biancaneve e i sette nani.
La premiata era Leni Riefensthal, il suo film era Olympia: Leni aveva impiegato due anni per il montaggio e ne aveva tratto due parti, “Fest der Volker”, “Festa dei Popoli”, che durava 123 minuti e “Fest der Schönheit”, “Festa della Bellezza”, che ne durava 94. Un totale di tre ore e mezza: un attimo rispetto alle 200 ore di girato, 400 mila metri di pellicola che erano l’opera originale. Leni dovette lavorare parecchio di immaginazione e di forbici.
La prima l’aveva in quantità, fin da ragazza quando, destinata a una carriera di imprenditrice nella ditta di papà a Berlino, aveva invece preferito la vita d’artista per la quale si sentiva più portata, prima dedicandosi al balletto e al ballo, poi, vittima di un menisco come un qualsiasi calciatore, durante una trasferta a Praga, al cinema. Da attrice per cominciare, specialmente impegnata nel genere “film di montagna” che allora andava molto.
Affascinata dalle immagini del regista Arnold Fanck, andò a cercarlo lungo le Alpi: lo trovò, trovò anche un aitante attore altoatesino di cui divenne amante e che poi l’avrebbe tradita scrivendo e pubblicando un falso (così è stato riconosciuto dai tribunali) diario di Eva Braun, la compagna di Hitler, che raccontava il Führer e i suoi incontri non precisamente sentimentali con Leni in salotto, mentre la povera Eva si rigirava da sola nel letto matrimoniale nella stanza accanto.
Oltre l’attore altoatesino, anche il cinema conquistò Leni: girò da regista La bella maledetta. Hitler lo vide e gli piacque. Leni lesse “Mein Kampf” e le piacque, sentì un discorso di Hitler dal vivo e le piacque. L’incontro era nel destino, che non aspettò troppo a provocarlo. La Riefensthal ebbe l’incarico della regia di un documentario, “La vittoria della fede”, che si occupasse del congresso nazista di Norimberga, 1933.
L’opera non ebbe fortuna: nella “notte dei lunghi coltelli”, quella che nel 1934 portò all’epurazione delle “camicie brune” più radicali, si consumò la disgrazia di Eric Rohm, potentissimo loro capo, che venne giustiziato. Nel documentario di Leni, Rohm era ripreso frequentemente al fianco di Hitler (era uno dei pochi che gli “dava del tu”) e il materiale fu fatto sparire in tutta fretta.
Leni non sparì: anzi Hitler la convinse a girare un nuovo documentario, legato al successivo congresso di Norimberga: stavolta a trionfare nel titolo non era la fede, ma la volontà, “Il trionfo della volontà”. Visto il budget ed avuta l’assicurazione che sarebbe stato l’ultimo lavoro politico (ma “Olympia”, allora?) la Riefensthal accettò l’incarico. E diresse quello che è tuttora considerato un classico della propaganda politica, il Führer protagonista come un messia. Teleobiettivi, grandangoli, quasi tutti gli operatori cinematografici tedeschi: Leni ottenne carta bianca.
Uomini in marcia, musiche travolgenti e Hitler furono gli ingredienti. “Olympia” avrebbe seguito questa traccia dopo che Leni ebbe un altro cedimento di regime, girando un cortometraggio, “Tag der Freiheit – Unsere Wehrmacht”, “I giorni della libertà – Il nostro esercito”, che doveva servire al Fuhrer per tenere a bada le rinascenti forze armate tedesche furiose per non essere state trattate nel documentario precedente. Era il 1935, l’anno delle leggi razziali. Per tirarsi fuori da ogni accusa, Leni negò poi di aver girato proprio in quei tempi l’esaltazione della Wehrmacht: ma nel 1971 ne fu trovata una copia…
Era tempo di Olimpiadi e dunque di “Olympia”. Hitler la incaricò del compito, Leni pretese e ottenne che Goebbels fosse tagliato fuori dalla realizzazione: lui la definiva “una donna cattiva”, lei raccontava di averlo più volte dovuto “respingere”, non solo in senso creativo.
Le masse, la corporeità, le musiche, la bellezza: la Riefensthal era nel suo territorio. Tecnicamente innovativa, ebbe l’accesso in tutti i luoghi olimpici; fece scavare trincee per camere a livello terra; ne mise subacquee e aeree legate a un pallone aerostatico (vennero premiati coloro che ritrovavano parti girate volate via dalla mongolfiera), ne legò alle caviglie dei maratoneti e alle selle dei cavalieri; montò il dolly su rotaie e usò la slow motion, la moviola; non le sfuggì un muscolo, specie di quelli del decatleta d’oro, l’americano Glenn Morris, con il quale ebbe una storiella e che convinse a ripetere nello stadio deserto una gara che non era riuscita a filmare bene quando effettuata veramente; riprese un premio piano di Jesse Owens che sorrideva alla telecamera dopo una vittoria e la mise in contrapposizione con il volto di Hitler: il “nero”, di umore, era il Führer. Montò tuffatori che uscivano dall’acqua, spruzzando nell’inversione delle immagini, e statue greche che si trasformavano in corpi viventi di atleti o danzatrici (il Discobolo di Mirone si anima e diventa il decatleta tedesco Erwin Huber, quarto nella gara, nudo nell’immagine; lei stessa interpreta una danzatrice, il sogno di bambina). Impiegò 40 operatori e 50 assistenti, inventò una specie di zoom. Fu esteticamente geniale.
Le molte riprese dedicate agli americani, anche neri, non erano prova di un dissenso antirazziale, ma una subliminale strizzatina d’occhio a Hollywood, dove Leni voleva approdare e dove regnava la sua rivale d’un tempo, Marlene Dietrich, che le aveva tolto il sogno di essere sullo schermo Lola e L’Angelo azzurro, ruolo cui la Riefensthal ambiva.
In America Leni si recò per il lancio di Olympia. La tragica coincidenza volle che il viaggio avvenisse proprio mentre in Germania fu la “Notte dei cristalli”, 1000 sinagoghe bruciate e 30 mila ebrei deportati in una notte sola. L’opera venne boicottata immediatamente, Hollywood rifiutò ogni incontro, il film non trovò distributori: era il 1938. Brundage, gran capo dello sport mondiale, ne disse un’altra delle sue: “Beh, i teatri e le sale cinematografiche sono quasi tutti degli ebrei…”.
La Riefensthal tornò in Germania. Tutto le crollava intorno: fu poi arrestata e rilasciata più di una volta. Non aveva lavoro: aveva in mente soggetti come la vita di Eleonora Duse, o quella di Vincent Van Gogh. Poi se ne andò in Africa a fotografare (immagini bellissime) i guerrieri Nuba. A più di settant’anni prese la patente subacquea per girare documentari di biologia marina. A 101 anni morì, non senza aver scritto memorie né rilasciato interviste in cui raccontava la sua vita come la aveva vissuta, la raccontava a modo suo, nel documentario “The wonderful horrible life of Leni Riefensthal”. A ciascuno la scelta dell’aggettivo.
La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA