Maurizio Mannoni
6 minuti per la letturaHo sempre provato una autentica simpatia personale per Maurizio Mannoni perché mi è sempre sembrato di vedere in quella sua incertezza abbandonica e distratta una dimensione esistenziale come una carie dell’anima. Tuttavia, è ora di parlare male della sua Linea Notte per quel che significa e ha significato e seguiterà a significare nel tempo, sperando che il nostro accetti una nostra idea salvifica. Quella perduta trasmissione sub orbitale è diventata da tempo una sbracatura quantistica, una smagliatura, una breccia attraverso cui passa tutta intera la banalità di sinistra.
La sinistra vuole abbattere i muri, dice e però sgretola sempre quello fatto dalla realtà che per questo motivo è considerato di destra. Prima di scrivere questo articolo sono andato a spulciare su Youtube tutto quel che potevo, poi ho fatto ricorso alla memoria delle puntate viste e delle (poche) volte in cui sono stato ospite di Mannoni: un uomo gentile ma macerato dal ruolo nel quale non crede più. E però proprio per questa sua assenza – per alcuni versi benefica – la sua trasmissione è una di quelle attraverso cui passano indisturbati messaggi distrattamente fatui, talvolta brillanti, oppure devastanti, fuori controllo, fuori logica, fuori misura, con l’aggravante dell’innocenza che alla fine hanno contribuito e contribuiscono a sgretolare il muro della cittadella.
La mia tesi nasce dall’osservazione: quel pover’uomo da tempo è costretto ad impersonare l’uomo di sinistra certificato, su una rete di sinistra certificata, che fa un programma di sinistra. Troppi ossimori alla fine fanno un buco come un’ulcera. E l’ulcera si vede quando si appoggia ai tavoli e stringe i denti. Dentro di sé, nell’apparente coma che lo pervade in superficie, agita una profonda resistenza contro le parole stesse che è costretto a pronunciare.
È come un prete spretato costretto a dire messa talvolta anche in latino cantando, più spesso una piccola messa parrocchiale o quella delle sei del mattino per le vecchie contadine prossime a rendere l’anima al signore. Tutto il peggio e il grottesco che si poteva dire e mostrare di Maurizio Mannoni, purtroppo per me, ma anche per fortuna, l’ha già fatto Crozza con un pezzo micidiale che puntava soltanto sull’ipotesi di una personalità pressoché nulla del povero Mannoni, il quale ha incassato lo sberleffo con signorilità perché la norma, a sinistra, recita che il satiro è santo e dunque non gli si replica.
Crozza aveva ragione perché lo ha imitato disperso, altrove, nel pallone, in disequilibrio statico instabile, in collegamento con un inviato di Repubblica e la solita Giovannona da New York. Guardavo, sorridevo senza mai ridere veramente e mi rammaricavo per il giornalista che conosco. Poi però avrei voluto irrompere su quel palcoscenico e urlare: Ma non vedete che il povero Mannoni fa così male il suo mestiere perché lo odia? Perché odia tutte le scemenze che pretendono che lui dica? Siete voi che gli avete riempito la bocca col tema della povertà che lui poi, come un bambino che rifiuta la merenda, sputacchia qua e là sotto forma di briciole di luoghi comuni. La linea notte è la linea delle onde beta che accompagnano il primo sonno, quelle prima di russare. Ma a causa di questo andazzo ondivago e onirico, preanestetico e post mestruale, depresso e quaresimale, la sua trasmissione è diventata un portale aperto alle idiozie d’ordinanza mescolate con sporadici sussulti di intelligenza, sempre sull’onda di un’intesa sottintesa, come fra gli ubriachi: che il bene sia di sinistra, la normalità sia di sinistra., la verità… eccetera. Tutte – per dirla con Benedetto Croce quando essudò il suo primo commento sulla psicoanalisi di Freud – “grandissime cazzate, dalla prima all’ultima senza lasciarci niente in mezzo”. Questo Mannoni, prete spretato della sinistra, lo sa benissimo. La sua condiscendenza distratta significa: Dio mio non vorrei essere qui, non vorrei dire quel che dico, non vorrei annuire quando annuisco, ma devo farlo perché It’s my job.
Ma no, Maurizio, non è il tuo job anymore. Sarebbe ora di fare un bell’outing per dire che non sai come dirlo, ma qualcosa sarebbe anche il caso di dirla (per così dire). Nove mesi fa andò ad una terribile festa del nuovo (boh?) partito Comunista di Marco Rizzo, un altro personaggio a me simpaticissimo perché fa il comunista in preda ad eccitazione erotica. Un altro che – riferisco una mia personale impressione – non crede a una sola parola che dice, ma quando la dice è a un passo dall’orgasmo. Rizzo è anche un vero umorista e infatti diceva a Mannoni, armato di microfono al tavolo di campagna di una neo-festa dell’Unità, che i lavoratori se messi tutti insieme possono anche dar luogo all’Unione Sovietica, potenza planetaria. E faceva finta di dire sul serio. Anzi lo diceva proprio quasi sul serio.
La cosa più struggente era che mentre Rizzo pronunciava questo sproposito storico con perfetto aplomb da avanspettacolo, Mannoni contava le formiche per poi chiedere distrattamente e in un modo talmente soft da sprofondare lui stesso nella sua stessa panna montata, se per caso – giusto per un purissimo caso – non gli sembrasse – solo sembrasse, hai visto mai – che magari in tema di immigrazione Salvini non avesse, non diciamo ragione, dio ci scampi, ma almeno usasse, come dire, un argomento, oddio come posso dirlo senza dirlo troppo, uno strumento, che dico, un tema, ecco un tema che potesse, in un certo senso (solo in un certo senso e senza estremizzare, dio non voglia, un colpo al cerchio e tre alla botte) far pensare a qualcuno che magari qualcosa di reale nelle sue parole (di Salvini) ci fosse qualcosa di vagamente serio e persino vero, ecco l’ho detto posso tornare a contare le formiche. Il Mannoni visto da Crozza puntava dunque tutto sulla comicità di chi non sa di che parla, salvo cavalcare i luoghi comuni come vecchi ronzini: la povertà, la soglia di povertà, i nuovi poveri, e dài con la povertà. Dove il feroce comico mancava secondo noi il bersaglio era nella percezione del fatto che Mannoni sa di che cosa parla ma sogna di non doverla dire. Andando avanti così si finisce in psicoanalisi.
E allora andiamo al punto: Maurizio Mannoni è stanco morto e crede di cavarsela esibendo questa sua stanchezza come una scusa. Nel processo di una immaginaria Norimberga sulle colpe della televisione nella catastrofe italiana, lui siederà fra i grandi giustificandosi davanti ai giudici col fatto che lui non c’era e se ci fosse stato avrebbe dormito, e c comunque avrebbe dormito da piedi, perché se era vero che stava con i frati, era anche vero che zappava l’orto. Nella vera Norimberga fu la posizione dell’architetto Speer.
La Linea Notte di Mannoni è sempre stata un appuntamento nottambulo di rilassamento diaframmatico in cui si sono infiltrate opinioni di una perforante banalità di sinistra., ormai trasformata – da teoria politica – in sentimento domenicale in torpedone cantando bella ciao. Sarebbe dunque ora di chiudere baracca e burattini perché in quello studio nessuno raccoglie più la differenziata delle idee che producono solo moscerini. Salverei Mannoni come persona, a condizione che si disponesse, dopo un paio di mesi di vacanza termale a inaugurare un programma in cui raccontasse, diario alla mano, la vera storia delle sue pene, dei suoi sbadigli, della sua Rai, della sua Rete, del partito, i partiti, le correnti, i lapsus, le distrazioni.
Potrebbe finalmente parlare del suo odio per la Berlinguer e del clima da coltellini svizzeri delle notti di RaiTre. Affideremmo al WWF il compito di rimuovere i contenuti preservando l’astronauta che dormiva in essa soffrendo la pena del sonnambulismo.
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