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CROTONE – I pazienti affetti da malattie reumatiche croniche infiammatorie presentano una maggiore prevalenza di Covid-19 rispetto alla popolazione italiana sia a livello generale che regionale. Fra le malattie reumatiche, le connettiviti sistemiche, come il lupus sistemico, la sclerosi sistemica e le vasculiti presentano una maggiore prevalenza di Covid-19, se confrontate con le varie forme di artrite cronica, e probabilmente ciò è dovuto ad un più marcato coinvolgimento del sistema immune presente nel primo gruppo di malattie.

L’aumentata prevalenza di Covid-19 nei pazienti affetti da malattie reumatiche croniche infiammatorie rispetto alla popolazione generale vale anche in regioni a basso impatto pandemico, come la Calabria, e ciò è probabilmente dovuta alla maggiore fragilità dei pazienti reumatici. Sono i principali risultati di un’interessante indagine clinica a cui la Calabria, osservata insieme all’Emilia Romagna e alla Toscana, ha dato un contributo importante.

Lo studio, coordinato dal professor Clodoveo Ferri, ex direttore della Cattedra di Reumatologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia da poco in pensione e originario di Cropani, svolto in collaborazione col team di specialisti della clinica reumatologica convenzionata Casa di cura “Madonna dello Scoglio” di Cotronei, è stato condotto mediante survey telefonica. Si tratta di uno studio multicentrico che ha coinvolto regioni del nord, centro e sud Italia, caratterizzate da un’evidente differenza nella diffusione di Covid-19, in particolare Emilia Romagna, Toscana e Calabria.

Uno studio multicentrico, dunque, che ha coinvolto regioni del nord, centro e sud Italia, caratterizzate da un’evidente differenza nella diffusione di Covid-19. Nello studio, in particolare, sono stati coinvolti dall’università di Modena e Reggio Emilia la clinica Madonna dello scoglio di Cotronei, i centri reumatologici delle Asp di Crotone, Vibo, Cosenza (quelli degli ospedali del capoluogo bruzio e di Castrovillari), del Grande ospedale metropolitano di Reggio, ma anche le università di Pisa e Bologna e centri reumatologici in Toscana ed Emilia. La survey telefonica, della durata di 6 settimane, è stata seguita da un monitoraggio a lungo termine dei pazienti fino alla graduale riapertura delle attività ambulatoriali, di day hospital e di ricovero, e ha coinvolto 1.641 pazienti affetti da differenti malattie reumatiche infiammatorie (Emilia Romagna 278, Toscana 429, Calabria 934), fra cui artrite reumatoide, artrite psoriasica, spondilite anchilosante, sclerosi sistemica, lupus eritematoso sistemico, poli/dermatomiosite, sindrome di Sjögren, connettivite indifferenziata e varie forme di patologie più rare comprese le vasculiti sistemiche.

I pazienti, contattati telefonicamente dai propri specialisti operanti nei vari centri di afferenza, hanno aderito con entusiasmo all’indagine clinica sul loro stato di salute generale, incluse la malattia di base, le cure in atto ed eventuali manifestazioni da Covid-19. I risultati complessivi della survey, dopo un’accurata elaborazione statistica, sono riportati in un lavoro scientifico pubblicato sulla rivista reumatologica internazionale Clinical Rheumatology, che lo ha segnalato all’Oms.
Tra gli altri risultati è emerso, fortunatamente, che nei pazienti reumatici l’infezione da Covid-19 ha prodotto forme cliniche generalmente lievi-moderate e solo raramente manifestazioni gravi tali da richiedere l’ospedalizzazione; un dato che non è di facile spiegazione, e soltanto gli studi ancora in corso potranno chiarire la complessità dei fenomeni.

«Al momento – spiega il professor Ferri – si può ipotizzare che la consapevolazza da parte di molti malati reumatici della loro fragilità clinica e la conseguente applicazione delle necessarie cautele e limitazioni nella vita quotidiana può aver concretamente limitato la diffusione del Covid-19 in questa particolare popolazione di pazienti. Nello stesso tempo – aggiunge – si può presumere che lo stato di immunodepressione dovuto alla malattia da una parte possa aver favorito l’infezione virale ma nello stesso tempo possa aver limitato la violenta reazione immunitaria al virus responsabile della grave polmonite da Covid-19».

A tutto questo può aver contribuito una certa azione di “freno” – è un’ipotesi ancora da verificare – da parte di alcuni farmaci immuno-modulanti o immunosoppressori spesso impiegati per cicli molto prolungati nella cura dei pazienti reumatici.

Sulla base di quanto sopra, ai pazienti è stato consigliato, nel periodo più critico della pandemia, di proseguire le terapie di fondo per il controllo della malattia reumatica, naturalmente con un più attento controllo clinico di eventuali effetti avversi.

Per la rilevanza dei risultati finora registrati, è in programma un monitoraggio a lungo termine dei pazienti esaminati, sia per le possibili conseguenze tardive, nei casi che hanno manifestato una malattia da Covid-19, sia per la possibile temuta seconda ondata dell’epidemia. Il lavoro svolto segnala la necessità di elaborare a livello sanitario, in considerazione di possibili nuove ondate della pandemia, linee guida condivise per individuare precocemente i pazienti a più alto rischio di Covid-19, i parametri clinici e di laboratorio predittivi di infezione più grave e le opportune strategie terapeutiche, se possibile personalizzate, da adottare in fase molto precoce di insorgenza dei sintomi da Covid-19.

Ipotesi sempre da verificare attraverso studi mirati che sono destinati ad ampliarsi. Aumenta il numero delle regioni coinvolte nel nuovo monitoraggio in corso: al nord ci sono Piemonte, Lombardia e Veneto e la Liguria, tutte zone particolarmente colpite dal Covid, al centro Marche, Lazio e Molise e la ricerca adesso concerne tutto il sud perché estesa anche a Molise, Basilicata, Puglia e Sicilia.

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