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Il giovane Cioran nel periodo romeno

Cioran non pensava a vere e proprie opere quando scriveva, ma appuntava sensazioni
temporanee su dei quaderni per poi selezionare e allestire successivamente un libro. È
questa una delle tesi che ho cercato di dimostrare nel saggio Emil Cioran. La filosofia
come de-fascinazione e la scrittura come terapia (Nulla Die, 2018), evidenziando la
presenza di diverse ripetizioni nei suoi testi e la ripresentazione di frasi identiche
nelle opere pubblicate che si trovano già nei Cahiers. Non è un caso, infatti, che
questi ultimi non erano altro che trentaquattro quaderni identici (contrassegnati da un
numero identificativo e una data) dai quali il filosofo traeva le sue opere e che,
trattandosi appunto di ripetizioni o di aforismi scartati, aveva destinato all’oblio.


Allo stesso modo di come era stato destinato all’oblio anche quello che di fatto è un petit
cahier, ovvero questo libretto in uscita il 7 ottobre per Mimesis dal titolo Taccuino
per stenografia (a cura di Antonio Di Gennaro, traduzione di Magda Arhip). Una
nuova tessera che si aggiunge alla mappatura del mosaico, ancora incompleto, del
giovane Cioran del periodo romeno. Il testo non riporta alcuna data, ma come ha
osservato Eugène van Itterbeek, che si è occupato della pubblicazione dell’inedito
originale, è possibile pensare che esso sia stato scritto durante o poco prima della
stesura del Crepuscolo dei pensieri, cioè negli anni 1937-1938. Alcune frasi del
Taccuino, infatti, ricompaiono quasi letteralmente in Amurgul gândurilor, come ad
esempio quando il pensatore romeno definisce Pascal e Nietzsche due reporter
dell’eternità.

Copertina


La scrittura è irregolare, immediata, frantumata come i «pezzi di uno specchio rotto»;
caratteristica comune al periodo romeno di Cioran, se si pensa che la sua prima opera,
Al culmine della disperazione, venne pubblicata con oltre cinquecento errori e refusi.
Siamo di fronte all’istantaneità di un pensiero abbozzato su un pezzo di carta, il che
ci restituisce l’immagine più autentica possibile del giovane studente universitario
che nel 1937 implorava vanamente Mircea Eliade di aiutarlo a fargli vincere una
borsa di studio a Roma: «Vorrei scrivere un libro sull’Italia per mettere a frutto le mie
malinconie». Proprio per questi motivi Eugène van Itterbeek arriva a definire questo
scritto non un cahier ma un carnet: se il primo è più vicino all’opera e ha superato
fasi di cura dello stile e revisioni, il secondo è pura intuizione, esplosione,
cancellature.


I temi trattati sono vari e ricorrenti, regola che vale per tutta la sua produzione, e
mentre veniva pubblicato Lacrime e santi egli qui tratteggiava aforismi sulla figura di
Gesù: «Se fossi stato Dio, avrei fatto tutto di me, tranne che un uomo – Quanto
sarebbe stato grande Gesù, se fosse stato un po’ più misantropo!». E se per qualcuno

la pubblicazione di questo Taccuino dovesse apparire una minuzia, un ghiribizzo di
qualche studioso, si riporta un estratto come controprova della qualità della scrittura e
delle riflessioni che avremmo perduto: «Ciò che ci turba in maniera così misteriosa
dinanzi alla bellezza è che in qualche modo essa ci dispensa dal vivere. Il tempo si
pietrifica, giacché la bellezza non sorride all’effimero. Un dipinto, una sonata o un
paesaggio sono isole di cui l’agitazione della vita è gelosa. La vita invidia tutto ciò
che resiste al logorio inutile. – E niente è più contrario alla vita come il rimpianto
dell’eternità, presente nella bellezza. È come se la bellezza attendesse qualcosa
dall’eternità».

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