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Di Vincenzo Fiore

Ventuno storie di ordinaria sconfitta. In questo modo si compone la nuova raccolta di racconti di Luisa Bolleri “Precipitare” (Leonida Edizioni). Un linguaggio crudo e terribilmente reale, che contemporaneamente ci racconta le fragilità della condizione umana. Si racconta oggi ai microfoni del “Quotidiano del Sud” l’autrice del libro.

 

Al lettore che si avvicina alla sua raccolta di racconti “Precipitare”, lei offre storie di disperata quotidianità, alcune ispirate anche da fatti di cronaca. Perché lei narra in particolare di sconfitti?

Parlo di sconfitti perché ci sono e li vedo. Penetro in situazioni fuori dall’ordinario, nelle quali esplode uno squilibrio. Per questo mi sottraggo al finale consolatorio e alla speranza. Gli sconfitti sono i ‘senza voce’ di ogni società, io la fornisco loro. Apro spiragli per il lettore, mostrando su quanta fragilità si poggi la cosiddetta civiltà evoluta.

Il punto di vista del narratore cambia tre volte nella raccolta, ha forse voluto mettere in atto una sperimentazione nei modi della scrittura oppure la scelta è legata ogni volta alla tipologia di storia?

Entrambe le cose. Amo sperimentare e mettermi alla prova. Ciascuno dei punti di vista adottati ha in sé pregi e difetti: la 3^ p. è più adatta alla soluzione di un poliziesco; la 1^ p. esprime pensieri e intenzioni del personaggio, positivo o negativo che sia; la 2^ p. è utile alla resa dei conti, allo sfogo.

Le storie narrate trattano tutte argomenti forti che lei, tuttavia, tratta con un linguaggio sobrio e in alcuni casi delicato. Alla fine dei racconti lascia quasi sempre una sorta di finale aperto, preferisce che sia il lettore a trovare una conclusione personale? 

La vita è una retta, in cui traccio due punti. La parte precedente è il passato, quella successiva è il futuro. Il racconto si occupa del segmento tra i due punti, di inizio e fine, in cui delineo una trama. Non sono onnisciente, sono tormentata dai dubbi, mentre la realtà è imprevedibile e mutevole, quindi mi fermo dove si ferma la storia. 

Lei tratta anche della complessa tematica della violenza sulle donne, si sente di aggiungere qualche commento a questo dramma? 

Le donne devono studiare e crearsi un’indipendenza economica. In caso di violenza, senza indugi, devono chiedere aiuto, denunciare, tutelarsi. Servono reti capaci di protezione capillare, giudici competenti, pene certe e severe. Ma, soprattutto, le donne devono pretendere rispetto e saper reagire se in pericolo. È vietato morire! 

I racconti, così diversi tra loro, sembra che abbiano un sotteso unico filo conduttore, potrebbe essere l’amore o la ricerca di esso che li lega tra loro?

Questo è il senso laico della mia opera, in prosa e in poesia. Siamo individualisti incapaci di relazionarci. Come uscire da questa ripetizione ciclica di sofferenza che dura dall’alba dei tempi? L’amore è l’unica soluzione possibile, estrema e necessaria, figlia del rispetto per uomo e natura, della compassione, della condivisione, di maggiori equità e giustizia sociale.

In apertura del libro ha citato un bellissimo di Cioran: “Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo”. Ritiene che il suo libro possa essere un pericolo?

Se un libro provoca disordine in uno status quo imperfetto, forse quel libro è un pericolo. Ritengo sia compito di chi scrive fare tentativi: frugare nelle ferite che l’uomo infligge all’altro uomo e di riflesso a se stesso. Incontrare il male da vicino può frantumare la dura crosta di indifferenza ed egoismo, suscitare indignazione, sete di giustizia, provocare un cambio di passo. L’evoluzione è sempre causata da tentativi. 

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