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Di Vincenzo Fiore

«Credo che la coscienza umana sia un tragico passo falso dell’evoluzione. Siamo troppo consapevoli di noi stessi. La natura ha creato un aspetto della natura separato da se stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per le leggi della natura». Chi potrebbe aver pronunciato questa frase? Friedrich Nietzsche o Thomas Ligotti? Sbagliato, nessuna delle due opzioni. Si tratta, invece, di un estratto di un dialogo della prima stagione di “True Detective”, serie tv americana scritta e diretta da Nic Pizzolato. Proprio lo sceneggiatore di New Orleans ha confessato di aver “saccheggiato” dalla storia del pensiero tragico, per stilare i dialoghi dell’enigmatico protagonista della serie con i suoi interlocutori. Perché, ormai, sembra un dato acquisito: anche le serie tv di successo possono essere ispirate dai grandi filosofi.

E chi in Italia ha provato a far avvicinare i ragazzi alla filosofia proprio attraverso le serie, è stato il filosofo e divulgatore Tommaso Ariemma. Il suo libro “La filosofia spiegata con le serie tv” (Mondadori, 2017) è diventato un vero e proprio caso editoriale, mentre è da poco in libreria il suo nuovo saggio “Filosofia degli anni ’80 (il melangolo, 2019). Oggi abbiamo provato a farci raccontare questo strano matrimonio tra filosofia e serie tv e questo sentimento di nostalgia per gli ’80, alimentato anche dal successo di serie come Stranger Things (ma non solo).

 

Nel descrivere gli anni ’80 come un decennio di svolta, ha affermato che viverli ha significato nascere per una seconda volta. In che senso?

Sono stati anni di continui sconvolgimenti, non solo politici. Il nostro rapporto con le merci e la realtà, con le categorie di mondo e di tempo, cambia radicalmente negli anni ’80. A dare l’innesco sono delle merci speciali: i personal computer che cominciano a diffondersi nelle case e i cult dell’industria culturale più avanzata. Essi trasformeranno per sempre il nostro immaginario.

Lei spiega il successo di alcune serie tv ambientate in quegli anni, come Černobyl’, anche per una certa fascinazione sui giovani per quel periodo storico. Come spiega questo forte interesse verso gli anni ’80 da parte di generazioni che non li hanno vissuti?

Ogni generazione ha avuto la sua “retromania”: negli anni ’80 c’era la fascinazione per gli anni ’60 e’50. Ma questo ritorno degli anni ’80 ha qualcosa di diverso. Non è nostalgia, o meglio, non si tratta di una nostalgia semplice. Dietro il fascino degli anni ’80 c’è infatti il desiderio di individuare un inizio, un punto zero, un “noi siamo qui”, in un’epoca – la nostra – caratterizzata da un forte disorientamento. Quando le cose hanno cominciato a sottrarsi al nostro (illusorio) controllo? Basti pensare a Černobyl’. In pochi lo ammettono, ma il crollo dell’Unione Sovietica trova nell’esplosione della centrale nucleare un momento decisivo.

Qual è l’oggetto di quel tempo, ora scomparso, che ricorda con maggiore affetto?

Quello messo in copertina: la mitica cassetta. Certo, c’era già prima, ma solo negli anni ’80 comincia a circolare quella “vergine”, su cui tutti potevano registrare quello che ascoltavano. “Registrare”: oggi lo facciamo costantemente, spesso in modo compulsivo. Ma a partire dagli anni ’80 è stato il gesto contro una crisi della presenza senza precedenti.

Il filosofo Peter Sloterdijk ha definito il panico come il sentimento dominante degli anni ’80. Quel decennio si apre in Italia con Ustica, la strage di Bologna e il terremoto dell’Irpinia. Queste ferite possono considerarsi cicatrizzate?

Sono ferite aperte, lo resteranno per sempre. Ma prima degli anni ’80 tutti “sapevano, senza avere le prove”, per parafrasare Pasolini. Successivamente non abbiamo fatto altro che reagire a un panico diffuso, generalizzato, che si è trasformato lentamente in ansia. Le ferite non provenivano più solo dal passato, ma dall’incertezza del futuro.

Per quanto riguarda il contesto europeo e mondiale, pensare agli anni ’80 significa pensare soprattutto al crollo del muro di Berlino. Da allora il mondo non è più lo stesso…

Senza dubbio. Circola, a tal proposito, una tesi sbagliata: con il crollo del muro di Berlino, la contesa tra le due superpotenze si risolverebbe nel dominio incontrastato del capitalismo su scala planetaria. Ma fino a quel punto il capitalismo si è sviluppato come anticomunista, in relazione a un comunismo che ha avuto soprattutto la funzione ogni volta di identificare il capitalismo (in fondo, la gran parte degli intellettuali comunisti non fa e non ha fatto altro che questo). Privo del suo “stadio dello specchio”, per dirla con la Lacan, lo stesso capitalismo è “a pezzi”. Anche “il” capitalismo è finito.

Riflettendo più specificatamente sul panorama letterario, in quegli anni in Italia apparivano capolavori come “Il nome della rosa” di Eco e a livello mondiale Kundera pubblicava “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Oggi, a suo avviso, qual è lo stato di salute della letteratura?

L’evento letterario più interessante degli ultimi anni è stata la Trilogia dell’area X di Jeff Vander Meer. Un tentativo di porsi allo stesso livello di ciò che il filosofo americano Tim Morton ha chiamato “iperoggetti”: qualcosa di troppo vasto e vischioso da poter individuare e controllare, come il riscaldamento globale. Bisogna raccontare l’insostenibile. Non tanto quello privato, ma quello che nessun uomo è più in grado di sostenere. Come quanto accaduto a Černobyl’.

Ritornando alle serie tv. Cosa significa spiegare la filosofia attraverso di esse?

Significa liberare le potenzialità filosofiche all’interno delle nuove narrazioni complesse delle serie tv. Insegnando in una scuola superiore, mi sono accorto di avere così uno strumento potentissimo per avvicinare i ragazzi alla filosofia e per proseguire il cammino con il massimo entusiasmo per il sapere.

È davvero possibile incontrare Kant sull’isola di Lost o scorgere Jude Law con Spinoza in “The Young Pope”?

Certo, a volte sono gli stessi autori di queste serie a citare i filosofi (come nel caso di Spinoza in “The Young Pope”). Altre volte le serie possono tornare utili come veri e propri “siti” filosofici, per la loro complessità, per le questioni poste al loro interno. Così io e i miei studenti ci siamo immaginati Kant all’interno della serie famosa per i suoi rompicapi: Lost.

E cosa c’entrano invece Platone e Aristotele rispettivamente con “Black Mirror” e “The Walking Dead”?

Black Mirror è una serie che riflette sui rischi e sulle potenzialità che lo sviluppo tecnologico porta con sé e il filosofo che ha messo in guardia la tradizione occidentale sull’uso e l’abuso della tecnologia (anche se è primitiva: parliamo di scrittura e pittura) è stato certamente Platone. Molte questioni poste all’interno della serie riflettono non poco quelle del filosofo greco, ma è interessante vedere le analogie, le differenze e le attualizzazioni. Aristotele, invece, ha fatto dell’individuazione e della catalogazione delle forme di vita la sua missione filosofica. La stessa missione, in piccolo filosoficamente parlando, dei protagonisti di una serie filosofica sugli zombie. Mettere in risonanza serie tv e filosofia è possibile dunque, ma soprattutto entusiasmante.

I numeri le danno sicuramente ragione. Il successo dei suoi libri è innegabile, tuttavia, qualcuno potrebbe parlare del rischio di una banalizzazione, ovvero la si potrebbe accusare di aver presentato un’immagine troppo pop della storia delle idee…

L’accusa di banalizzazione, mi si permetta il gioco di parole, è terribilmente banale. “La filosofia spiegata con le serie tv”, ad esempio, vuole offrire una serie di spunti, stimoli, suggestioni, esperimenti mentali. L’intenzione del testo è chiara: avvicinare e incuriosire. Ovviamente le questioni filosofiche non possono essere approfondite. Non presento quindi un’immagine della filosofia, ma un primo appuntamento tra filosofia e serie tv. Curiosamente, poi, i detrattori non vanno oltre questo volume (peccando di superficialità): ne ho pubblicati altri diciassette, una parte dei quali con un taglio fortemente accademico e specialistico. Basterebbe quindi spulciare un po’ di volumi per rendersi conto dei livelli di scrittura e di approfondimento. La filosofia è anche questo: una disciplina che si mostra a più livelli, dall’essoterico all’esoterico. Proprio come dicevano gli antichi.

Di recente, è scomparso Luciano De Crescenzo. Quanto le è stato d’ispirazione il suo lavoro divulgativo?

Gli devo moltissimo: è ancora il mio modello di divulgazione e lo sarà sempre. Mi sono avvicinato alla filosofia anche grazie ai suoi testi e ai suoi film. De Crescenzo ha reso filosofia terribilmente interessante e popolare per tante persone: resta ancora l’obiettivo della “pop filosofia” contemporanea. L’intuizione geniale: per portarla al vasto pubblico, bisognava unire la filosofia con un materiale gravido di filosofia, ma apparentemente lontano da essa. Nel caso di De Crescenzo, la tradizione napoletana. Io ho unito (ma non sono il solo) la filosofia alle serie tv e alla cultura pop, nella speranza di diventare per i millennials, ciò che Luciano De Crescenzo è stato per me.

 

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