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Diciamo la verità: l’avvento di Mario Draghi nella politica italiana ha rotto schemi logori e datati. Almeno sino ad ora. Non è solo il prestigio del personaggio, la concretezza che segnano le sue prime decisioni, il consenso che egli raccoglie in Europa e nel mondo a determinare l’aria nuova che si respira nel Paese. Gli italiani ne sono fieri e orgogliosi. Lo spazio c’era perché ciò potesse accadere.
Il Paese, prima del suo avvento, stava toccando il fondo e senza il decisionismo spinto e coraggioso di Sergio Mattarella si rischiava addirittura il default. Ora, invece, con l’arrivo dei fondi europei si apre la grande prospettiva della rinascita, come avvenne nel dopoguerra con il piano Marshall che fu il primo intervento straordinario che accompagnò anche una significativa politica infrastrutturale del Sud con la regia della Cassa del Mezzogiorno. Ed è qui la prova più importante che si presenta ora davanti al premier. Il tempo delle belle parole, dei proponimenti, delle promesse, delle lusinghe, inesorabilmente scade. I miliardi stanziati dall’Europa dovranno fare i conti con la capacità di spesa della classe dirigente, la lotta alla illegalità e alla corruzione, la trasparenza negli appalti e una giustizia giusta che dia prova di riconquista della fiducia nel cittadino nella magistratura così esposta a roventi critiche in questi ultimi anni. Non finisce qui. Mario Draghi si troverà di fronte alla sete di potere delle forze politiche il cui appetito ha solo concesso una sosta. Segnali non mancano. Inquietitudine, ammantata di ipocrito consenso, serpeggia tra alleati che hanno ripreso il linguaggio delle vecchie contrapposizioni.
Le prossime elezioni amministrative nelle grandi città potrebbero fare da detonatore e alimentare vecchi schemi a cui un uomo solo al comando difficilmente potrebbe fare fronte. Ovviamente i cantori di Draghi ben sanno che questi pericoli sono dietro l’angolo e già alcuni prendono, sia pure in modo educato, le distanze dal premier. Esempi non mancano: il presidente del consiglio viene spesso accusato di troppo neoliberismo e di poca attenzione verso i ceti più deboli. In poche parole viene giudicato di guidare un governo di conservatori.
C’è, poi, non ultimo, da considerare quali ripercussioni avranno sul governo Draghi le spinte secessionistiche che si agitano nelle forze politiche. A cominciare dal Movimento Cinque stelle coinvolto nella bufera scatenata da Grillo contro l’ex premier Giuseppe Conte. Gli esiti per ora sono incerti. L’ex premier ha minacciato di fare un nuovo partito, non accetta diarchie. Non solo. Resta aperto il tema della conflittualità tra governo nazionale e regioni che, come accade con il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, rivendicano, nel segno del potere, una maggiore autonomia. In realtà se si pensa alle decisioni assunte in favore del Mezzogiorno il tono trionfalistico dell’intervento programmato è ben diverso dai fatti progettati.
C’è la Napoli-Bari. la Salerno-Reggio Calabria, e qualche spicciolo per alcune opere infrastrutturali, peraltro da decenni nell’agenda dei passati governi. Sulla necessità di bonificare il territorio meridionale dalla piaga criminalità la troppa prudenza non è convincente. Certo, non è tempo di anticipare previsioni, ma neanche di tacere rispetto all’evidenza. L’auspicio è che tutto si possa rimodellare sulla primarie esigenza dell’unità del Paese e che Mario Draghi possa riuscire nella difficile impresa.
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