4 minuti per la lettura
L’ Italia è un paese sospeso. Tra la coda del coronavirus che, sia pure lentamente, abbassa la sua carica omicida e l’incertezza dei governanti e della politica che pesa sul futuro.
Eppure non ancora si riesce a definire un progetto per il domani. La scena continua ad essere occupata spesso dalla malapolitica, dai litigi tra i partiti, dal forte contrasto tra una maggioranza declamante e un’opposizione aggressiva e inconcludente. Alla necessità di decisioni rapide si contrappongono strategie dilatorie che consumano il tempo nella ripetizione di elementi già noti da anni. E’ questo, a mio avviso, il compito svolto dagli “Stati Generali” voluti dal premier Conte. Essi si prestano a due osservazioni critiche.
Era proprio necessario stilare una specie di “lista della lavandaia” per conoscere i bisogni di un paese in crisi? La riaffermazione del disagio da parte dei soliti attori delle categorie di riferimento non era forse nota da decenni?
Che la disoccupazione avesse raggiunto, oltre lo stesso impeto del virus, cifre insopportabili non era già ampiamente stata raccontata dalle centinaia di crisi aziendali e dai continui licenziamenti dalle fabbriche? E ancora. Che la farraginosità della burocrazia, e la diffusa corruzione che spesso l’accompagna, è il vero cancro che tarpa le ali dello sviluppo non era un male già noto?
Che vi fossero migliaia di cantieri infrastrutturali bloccati mentre invece avrebbero potuto attivare processi di occupazione da vera ricostruzione del Paese non era stato più volte promesso?
O che il Mezzogiorno, eterna questione post unitaria, è ancora fermo al palo, strangolato da una classe dirigente spesso incapace e talvolta collusa con i poteri criminali che ne occupano il territorio, non ha riempito volumi di dibattiti senza risultati?
Davvero erano necessarie le slide proiettate nel fasto di Villa Pamphili per conoscere di quali riforme e di quali volontà ha urgente bisogno il Paese? Intanto tra preparazione, tavoli e confronti è già trascorso un altro mese, mentre l’Europa con i suoi veti rende più lunghi i tempi delle decisioni e sempre più grave la crisi i cui effetti fanno pensare ad una possibile rivolta sociale. Non a caso nel Paese sospeso a partire dal prossimo settembre qualcosa potrebbe accadere. Speriamo che nel tempo che ci separa da questo appuntamento si possano trovare le risposte da tutti attese.
Intanto in questo scenario si colloca il primo appuntamento elettorale dell’anno: le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale della Campania e del presidente della giunta e di numerosi Comuni chiamati a rinnovare le amministrazioni locali. La pandemia ne ha posticipato la data già prevista per la fine dello scorso maggio. Viste dall’Irpinia le elezioni regionali rappresentano un vuoto esercizio di muscolarità della vecchia politica. La corsa a saltare sul carro del possibile vincitore è ormai senza pudore. Riaffiora l’antico, e mai debellato, trasformismo, una penetrante azione di clientelismo, alimentata da una disgustosa concessione di mance, contributi e quanto altro sottratto al territorio del bene comune. Ad oggi la partita si gioca tutta sui nomi dei possibili candidati in lista, senza neanche un accenno alla futura politica che dovrebbe perseguire l’ente regionale. E’ trascorso mezzo secolo dalla sua istituzione ed è ormai giunto il tempo di una urgente riforma. Nessuno ne parla. Sullo scacchiere dei consensi gioca la sua partita l’uscente presidente Vincenzo De Luca che alcuni ritengono abbia ben governato la fase terribile del Coronavirus. In parte è vero, ma non nel senso della sanità, della sua immagine, certamente. Non solo. In realtà ha aperto la borsa ai potenti ex collettori del consenso, sborsando mance sottratte al bene comune.
Io penso, invece, con molto rispetto, che per Vincenzo De Luca sia giunta l’ora di fare un passo indietro, di lasciare spazio ai giovani, di aiutare una nuova classe dirigente libera, autonoma, non compromessa, nè nepotistica a cimentarsi sul piano dell’impegno istituzionale prima ancora che clientelare.
Penso che anche dall’Irpinia debba partire un segnale forte. E se è vero che da qualche parte si sta lavorando per una lista indipendente (si dice “IrpiniaLibera” ) che nascerebbe dal confronto di più anime democratiche per far sentire la propria voce nel contesto regionale, allora si potrebbe sperare che oltre i soliti noti, che si svendono a seconda delle stagioni e degli interessi per cui si muovono, nascerebbe una nuova stagione di speranze. Quanto a come si consumerà la campagna elettorale, staremo a vedere.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA