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Sta facendo grande rumore, non solo nel Mezzogiorno, la decisione assunta dal Consiglio dei ministri, convocato l’altra sera in seduta straordinaria, di commissariale la Banca di Bari. La crisi era nota da tempo, ma l’operazione salvataggio era stata più volte rinviata. La Banca di Bari (3.300 dipendenti, 70.000 soci) è uno dei punti di riferimento della politica del credito nel Sud.
La decisione del governo risponde «alla necessità di assumere – è detto in una nota- tutte le iniziative necessarie a garantire la piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio a beneficio del sistema produttivo del Sud, in maniera pienamente compatibile con le azioni di responsabilità volte ad accertare le ragioni che hanno condotto al commissariamento».
Senza voler ripercorrere la lunga e tormentata vicenda che ha visto protagonista, soprattutto negli ultimi anni, la Banca di Bari, è qui opportuno riflettere sul ruolo del credito nel Mezzogiorno e i condizionamenti che esso ha determinato per lo sviluppo del territorio meridionale.
Non v’è dubbio che il costo del denaro nel Sud spesso ha soglie notevoli di interessi rispetto ad altre aree del Paese.
In alcuni casi, attraverso sentenze della magistratura, è stato accertato che l’oscillazione dei tassi d’interesse ha raggiunto a volte vette applicate nell’usura. A questo dato deve però aggiungersi quello che riguarda la struttura delle banche nel Mezzogiorno così come si configura oggi. E’ innegabile che, per effetto delle leggi sull’attività bancaria e per effetto della globalizzazione, il Mezzogiorno è stato fortemente penalizzato. Esempio evidente è il ruolo svolto da alcune banche nel centro-nord che hanno assorbito non poche realtà creditizie locali che pure avevano storie dignitose riferite allo sviluppo del territorio.
Ancor di più si è verificato con il più grande Istituto di credito del Mezzogiorno, il Banco di Napoli, la cui gestione, passata quasi sotto silenzio, è stata assunta dalla San Paolo Torino. Mentre questo accadeva la politica si preoccupava di dare spazio a nuove iniziative con gli stessi obiettivi di ciò che era preesistente. Annullati solidi punti di riferimento meridionale, i cui vertici sono stati trasferiti al nord, e avendo lasciato sul territorio macerie e sportelli senza potere decisionale, anche la strategia di sviluppo si è fortemente indebolita. Lo sanno bene gli imprenditori meridionali alle prese con richieste di prestiti per alimentare, innovare le proprie attività produttive.
Ogni pratica di finanziamento deve passare attraverso una trafila burocratica indicibile, fino a quando non decidono i vertici lontani dalla realtà. Allora l’operazione diventa solo speculativa, senza nessun riferimento alla solidarietà territoriale. In questo senso i più penalizzati sono i giovani che vogliono intraprendere un’attività e quanti di essi si accingono a costruire una propria famiglia. Già. Ci sono gli interventi statali per il Mezzogiorno, il credito d’imposta e i bonus che vengono decisi di volta in volta.
Ma tutto questo non è assolutamente stato utile a far diminuire le diseguaglianza fra Nord e Sud. Viene in mente la lucida e spietata analisi del meridionalista Guido Dorso, fatta tra il fascismo e il dopoguerra. Nel Sud le banche sono come le idrovore: ingurgitano risparmi degli emigrati per investirli al Nord. Oggi non ci sono più rimesse degli emigrati per effetto dello spopolamento e la convenienza di fare credito nel Sud è ridotta al lumicino.

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