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AVELLINO- «In un momento storico come il nostro, dopo 10 anni di attese per il completamento e il finanziamento degli ospedali e della rete territoriale, siamo ancora dinanzi ad una condizione di obsolescenza tecnologica o strutturale. In questi anni abbiamo perso migliaia e migliaia di posti di lavoro, tra medici, tecnici, infermieri. Il blocco del turn over lo abbiamo pagato a caro prezzo. Questo depotenziamento si è scontrato con la pandemia, per cui ci si è trovati, a livello territoriale ed ospedaliero, a dover rispondere ad una vera propria guerra, o se volete ad un terremoto, con poche forze. E questo è successo da marzo 2020 in poi, quando il sistema ha avuto grande difficoltà a dare risposte: gli ospedali non erano attrezzati, il personale insufficiente, i dispositivi che non arrivavano, gli ospedali obsoleti, il territorio depauperato per lo scarso numero di medici di medicina generale. Si è combattuto come eroi, e con armi spuntate ».
Il cardiologo Pino Rosato, presidente del Cda di Villa dei Pini, parla da ex manager dell’azienda Moscati di Avellino.
E oggi?
«Oggi finalmente vediamo con il Pnrr la possibilità di ridisegnare la sanità, ma la montagna ha partorito il topolino, se questi sono i fondi a disposizione. Noi invece, anche con il Mes, e attraverso prestiti da restituire a tasso agevolato, avevamo chiesto molto di più. Sarebbe il caso di rivedere e razionalizzare gli impegni con l’Europa».
Nello specifico del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ci sono due momenti importanti.
«Uno, intervenire per il rafforzamento ospedaliero territoriale, per garantire omogeneità nella capacità di risposta integrata all’utenza, e infatti stanno cercando di fare ipotesi organizzative diverse, come le cure domiciliari, gli ospedali di prossimità, le strutture intermedie, e quelle per le alte complicanze. Però poi questo percorso deve essere completato a livello territoriale. Se il paziente, una volta stabilizzato, non può essere seguito a domicilio, e non può avvalersi della struttura ospedaliera per i costi che ne derivano, è necessario un turn over tra ospedale e territorio, oltre a percorsi diagnostici nei quali i pazienti devono trovare una loro risposta».
Come si fa?
«La digitalizzazione è una risposta, ovvero la capacità di seguire da remoto il paziente che, se scompensato, grazie al web entra in questo processo di cura e assistenza ».
Ma anche qui servono adeguamenti strumentali e di personale.
«Sì, è un altro aspetto della riforma, realizzare la sicurezza in sanità, la sostenibilità, la tecnologia digitale, allo stesso tempo rafforzare la compagine del personale, infermieri, operatori, medici sia di medicina generale, che ospedalieri, specialisti, tecnici, psicologi, fisioterapisti, tutto ciò che può far parte di un sistema complesso: il momento ospedaliero e territoriale, è questo che deve venir fuori».
Resta la carenza di personale.
«La tecnologia è obsoleta, e sempre al Sud scontiamo una penuria di medici da far paura. Non sono stati fatti concorsi, e l’emergenza come viene affrontata? Gli operatori si sono assunti loro la responsabilità, con contratti a tempo determinato, Co.co.co, e invece no, serve personale del posto, intelligente, preparato e che abbia un grande legame con l’azienda, sia ospedale che Asl. Le persone devono essere fidelizzate alla propria azienda, non sfruttate. Poi ci lamentiamo che chi viene se ne va per cercare stabilità altrove».
Parliamo del Landolfi.
«Con il decreto 29, e l’annessione al Moscati, era chiaro che il discorso sarebbe stato modificato. Quel decreto, tra l’altro, già disegnava in parte un ospedale diverso anche se lasciava intendere che poteva rimanere tale. Poi, con la nuova direzione manageriale, si è visto che non rivestiva più le caratteristiche di ospedale sicuro, per cui anche i posti letto erano sovradimensionati rispetto all’effettiva capienza. C’erano difficoltà per l’antincendio, per i percorsi interni, i laboratori, i servizi, tutto questo ha fatto in modo che la nuova dirigenza anche in relazione al Covid, potesse rivedere tutto. Ha chiesto quindi un finanziamento, accordato dalla Regione, iniziare i lavori per avviare, allo stesso tempo, il percorso di ridimensionamento, con la necessaria chiusura dei reparti. In relazione all’ annessione e alla nuova rete regionale e provinciale, in questa ottica non poteva più rimanere ospedale generale, sede di Ps, come descritto nel decreto 70 del 2015, perché doppione, ma accogliere nuove specialità».
Una grande fetta di territorio dice il contrario.
«Con la delibera 201 di fine maggio si è pensato come salvare il Landolfi. Se si volesse applicare il decreto 29, si correrebbe il rischio di chiuderlo in due-tre anni ».
Ma il Pronto soccorso al Moscati è un grosso problema.
«Con il covid hanno trasformato molti reparti di supporto in covid, automaticamente tutte le persone che arrivavano non trovavano posto o aspettavano per molto tempo. Discorso diverso è trovare una buona osmosi tra Pronto soccorso, osservazione breve, medicina d’urgenza, reparti. Il personale che finora ha lavorato va ringraziato per il lavoro e il sacrificio che ha svolto e che svolge, mettendo a repentaglio anche la sicurezza personale».
Il futuro sembra incerto.
«Bisogna avere le idee chiare, pensando a nuovi modelli organizzativi, territoriali, come ho detto finora. E senza assolutamente trascurare la fascia del sociale, di cui lo Stato deve farsi carico, senza gravare sulle famiglie».
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