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È da qualche settimana in libreria l’ultimo lavoro di Umberto Galimberti Il libro delle emozioni (Feltrinelli), un viaggio critico nel vissuto interiore di ognuno di noi in un’epoca in cui le emozioni vengono spesso filtrate o intrappolate nelle barriere virtuali del digitale. Galimberti ci invita in questo testo a ritrovare il nostro spazio intimo e ci ricorda l’antica lezione delfica di indagare verso l’interno, ovvero di conoscere se stessi.

Professore nel suo nuovo libro scrive che i nativi digitali non si rendono conto che la rete non è un mezzo a loro disposizione, ma è un mondo in cui sono immersi. Un mondo che intercetta e plasma il loro modo di pensare e sentire.

Sì, se pensa al fatto che né io né lei siamo liberi di non avere un telefonino o un computer. Questo significa che la tecnica è già esondata dal suo campo ed è diventata società. I ragazzi immersi in questo mondo hanno una modificazione del loro pensiero, così come l’informatica è strutturata a lavorare in codice binario, loro si stanno adeguando a rispondere soltanto “sì” e “no”. Questo è un grande impoverimento del pensiero, poiché in una società complessa come la nostra non si può pensare secondo schemi semplicemente alternativi. Per quanto riguarda il modo di sentire, l’informatica ci mette in comunicazione con il mondo, ma la nostra psiche non oltrepassa il mondo-ambiente. In concreto, se muore un mio parente soffro tantissimo, se muore un mio vicino vado a fare le condoglianze, se so che ogni dieci secondi muore un bambino di fame in Africa, questa notizia resta soltanto una statistica. Il nostro mondo interiore ha altre tempistiche rispetto alla velocità dettata dalla rete, abbiamo perso l’attesa, il silenzio, la possibilità di non rispondere immediatamente. Ciò ha anche delle conseguenze: ovvero l’incapacità di gestire la distanza e i deliri di onnipotenza, che a volte si traducono nel tentativo pericoloso di controllare i movimenti e le frequentazioni di un’altra persona.

Nel suo testo si sofferma sulla necessità di un’educazione emotiva in un’epoca di razionalità tecnica e fa il punto sull’esibizionismo emotivo. Molti ragazzi infatti sui social si sforzano di apparire felici a ogni costo, condividono contenuti molto simili fra loro, con le stesse canzoni, con le stesse didascalie, provando così a costruire un’approvazione della propria personalità inseguendo o facendosi inseguire più o meno consapevolmente da trend e algoritmi. Diventeremo tutti vittime di un like?

Sì, perché ormai l’identità non è più il reperimento di ciò che propriamente siamo, non ci si conosce e questa identità viene costruita in base alla quantità di follower. L’apparire ha un primato rispetto all’essere. Per quanto riguarda la modificazione emotiva, noi nasciamo con delle pulsioni e chi non impara a gestirle diventa un bullo. La scuola dovrebbe lavorare il doppio con questi ragazzi anziché procedere con sospensioni, per farli passare al livello emotivo e conquistare una risonanza emotiva dei propri comportamenti. Kant diceva che bene e male si possono anche non definire, perché ciascuno li sente naturalmente da sé. Oggi non è più vero, i ragazzi non capiscono la differenza fra insultare un professore o prenderlo a calci, corteggiare una ragazza o stuprarla e non sto esagerando. Se leggiamo le risposte di alcuni ragazzi accusati di stupro, ai giudici rispondono sminuendo l’atto. Non c’è risonanza emotiva dei propri comportamenti e questo è pericoloso.

Senza giri di parole, lei sostiene che la scuola oggi è impreparata a educare e gestire determinati fenomeni. Però nello stesso tempo lei individua un possibile antidoto nella letteratura…

Dalle emozioni bisognerebbe passare ai sentimenti. Dimentichiamo che i sentimenti non sono una dote naturale, ma culturale. Già le tribù primitive attraverso miti e racconti tentavano di spiegare il proprio sentire interiore, poi la mitologia greca ha dato una rappresentazione delle emozioni e dei sentimenti umani: Zeus era il potere, Atena l’intelligenza e così via. Oggi abbiamo la letteratura che ci insegna cos’è il dolore, l’amore, l’angoscia, queste cose vanno apprese e apprenderle significa codificare le proprie emozioni e i propri sentimenti. La conoscenza ci fornisce gli strumenti per capire ed eventualmente uscire da una situazione di tristezza, di dolore. Aveva ragione Eschilo quando diceva che il dolore è un errore della mente. Se la tua testa è vuota, il tuo dolore è devastante, se hai uno schema di interpretazione, lo attutisci.

Un giovane neolaureato che voglia insegnare si ritrova catapultato in un meccanismo di concorsi rimandati, graduatorie che premiano l’anzianità e la necessità di accumulazione di titoli e di certificazioni talvolta inutili. La precarietà è quasi un destino già scritto. Sarà anche per questo che la scuola non funziona?

La scuola non funziona per due ragioni. La prima oggettiva è quella che se io ho una classe di trenta persone non posso seguire l’educazione di tutti e trenta. Se sono bravo, al massimo, riesco a dare un’istruzione, ma non è sufficiente. In questo modo non riesco a cogliere le diverse intelligenze di tutti, la scuola invece tende a privilegiare soltanto l’intelligenza logico-matematica. La seconda è soggettiva: i professori dovrebbero essere sottoposti a un test di personalità per stabilire se hanno un’empatia, se sono adatti a capire i ragazzi che hanno di fronte. Il docente dovrebbe essere empatico, carismatico, il docente deve essere un trascinatore. Platone diceva che la mente non si apre se prima non si apre il cuore. Quanti docenti oggi in cattedra non sono capaci di aprire il cuore? Io ho paura dei docenti che pur demotivando continuano a restare in cattedra e intanto magari non c’è spazio per qualche giovane.

A proposito di scuola, il Ministro Bianchi ha parlato della possibilità dell’introduzione della filosofia anche negli istituti tecnici. Cosa pensa di questa proposta?

È assolutamente necessario perché la filosofia non è un sapere, il sapere è della scienza, la filosofia è un atteggiamento e consiste nella capacità di mettere in discussione le proprie idee nel dialogo con l’altro, come ci insegna Socrate. Solo con tale atteggiamento si evitano il dogmatismo e l’intolleranza.

Un’ultima battuta: emotività e politica. Già Platone nel VI libro della Repubblica, attraverso l’immagine della nave in tempesta ci diceva che gli uomini tendono ad affidare il timone a un chiacchierone piuttosto che al vero esperto di pilotaggio. Come sta navigando la politica italiana?

Se abbiamo Draghi vuol dire che i partiti navigavano molto male, altrimenti non sarebbe stato necessario un governo tecnico. In una società complessa chi offre una soluzione semplice e tranquillizzante viene apprezzato, poiché ci dispensa dalla fatica di pensare. Invece bisogna tornare al pensiero, a pensare per competenze, e se la scuola funzionasse ci orienterebbe in tal senso.

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Rosa Curcio

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