Il già direttore del Sistema bibliotecario vibonese Gilberto Floriani
4 minuti per la letturaVIBO VALENTIA – «A me sembra che le polemiche siano sproporzionate e che ci sia sempre da ridire su tutto. Avvenne così anche con il corto di Muccino che non andava bene a nessuno, ma in questo caso alcuni interventi, e penso soprattutto a quello di Spirlì, li ho trovati veramente beceri».
Tiene ancora banco il dibattito sulla fiction Rai “La sposa”, campione d’ascolti televisivi e di polemiche social, che riaccende, come ciclicamente avviene quando si parla di contenuti audiovisivi mainstream, l’eterno dibattito sulla rappresentazione stereotipata di luoghi e caratteri regionali, surriscaldando gli animi dei commentatori della rete e dividendo puntualmente i giudizi tra chi grida allo scandalo e chi prova ad analizzare con più lucidità l’oggetto del contendere.
Gilberto Floriani, animatore culturale di primo piano in Calabria, già direttore del Sistema bibliotecario vibonese, veneto di nascita, si iscrive decisamente al secondo partito ed offre una lettura basata sulla profonda conoscenza di entrambi i contesti sociali chiamati in causa dalla produzione firmata dal regista Giacomo Campiotti.
«Il fenomeno dei contadini del Nord che si sposavano per procura è un dato di fatto – ricorda Floriani -: molto ben documentato in Piemonte, come ricorda il bel libro del collettivo Lou Palanca “Ti ho vista che ridevi”, ma anche in Veneto per mia conoscenza diretta. E mi risulta che in molti casi le ragazze che si sottoponevano a questo sacrificio avessero dietro le spalle storie di grandi difficoltà. Non dico che facessero le prostitute, come nel film di Alberto Sordi “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata”, ma c’erano certamente delle disavventure di non poco conto».
Molte critiche si sono concentrate sull’ambientazione storico-sociale della fiction. È d’accordo?
«A mio avviso il fenomeno riguardava le zone marginali del Veneto più che il fertile Vicentino, dove esistevano aziende agricole anche molto floride e importanti. Nelle zone collinari più povere è vero che molte ragazze non volevano più andare a lavorare nei campi, preferendovi la fabbrica dove il lavoro era meno faticoso e più remunerativo. Quindi i contadini di quelle zone, per avere una moglie, ricorrevano alla procura con l’aiuto di mediatori e molto spesso anche di preti».
Cos’altro non la convince?
«La fiction è ben fatta. Certo non è un capolavoro che resterà nella storia della televisione e vi è un’abbondante drammatizzazione dei fatti. Ad esempio, non risponde al vero che le donne venivano scelte in piazza, che venivano tastate in pubblico per verificarne lo stato di salute o la forza. Vero è che chi sposava per procura aveva l’interesse ad assicurarsi una donna in salute, ma da qui a rappresentare una sorta di mercato delle schiave ce ne passa. Un altro appunto che farei è quello della contestualizzazione storica perché a mio avviso la fiction è stata datata un po’ più avanti rispetto a quando realmente accadevano questi fenomeni. Alla fine degli anni ‘60 il Veneto era già largamente industrializzato e il fenomeno direi quasi del tutto scomparso. Poi vi è l’aspetto sociale: la famiglia protagonista della fiction appare opulenta e la borghesia contadina non ha mai preso in considerazione queste pratiche».
Anche se si parla di un fenomeno socialmente accettato, sullo schermo viene rappresentata la forte ostilità del carattere veneto nei confronti dei meridionali. Ai limiti del razzismo…
«I veneti sono fondamentalmente xenofobi, c’è paura e diffidenza del diverso. Anche le persone più colte non sono esenti da questo sentimento. Ma non sono maleducati: non sarebbe mai accaduto che, quando Maria, la protagonista, va al bar a telefonare potesse essere insultata nel modo in cui si vede nel film. Vero è che il forestiero, come avveniva per esempio con i lavoratori slavi o meridionali, veniva spesso emarginato perché sostanzialmente considerato incapace di integrarsi alla realtà veneta che era, anche nella sua dura realtà contadina, generalmente emancipata rispetto ad altri contesti».
Che immagine viene fuori della Calabria? C’è chi ha invocato interventi istituzionali per difendere la dignità offesa…
«Non bisogna dimenticare che siano di fronte ad una drammatizzazione della realtà. Non è un documentario, è una fiction. Non mi pare che le donne calabresi ne escano male. E le spose per procura non erano certamente tutte belle ed emancipate come Serena Rossi. Tutto sommato si fa una bella figura. Appigliarsi a questi argomenti trovo che sia una sciocchezza».
Anche la politica calabro-veneta però ha preso posizione…
«Sia Spirlì che il presidente del Consiglio regionale veneto Ciambetti ignorano la storia: non la grande storia ma la piccola storia di questo aspetto del legame tra Calabria e Veneto e le peculiarità delle rispettive culture. Un ricordo personale: a Lonigo c’era un notaio meridionale molto ricco ma che gli autoctoni consideravano poco più di un “terùn”. Questo per far capire che non era un fattore economico o di classe sociale a fare la differenza, piuttosto incideva l’aspetto culturale in cui prevaleva sempre una certa paura e diffidenza verso il diverso. Quella era la realtà veneta di un tempo. Questa, invece, è una fiction: rilassatevi!».
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