Cesare De Bartolis
4 minuti per la letturaSPILINGA – «Era un ragazzo vivace Cesare, un contadino che dava l’idea di essere attivo, pragmatico, io me lo ricordo abbastanza bene prima che partisse in guerra, quantunque fossi uno studente di scuola media», Francesco D’Agostino è sempre lucido e particolarmente razionale nella narrazione, mentre ci parla ha davanti agli occhi i momenti più travagliati, intricati, drammatici della storia d’Italia e racconta senza mistificare, con la virtù che hanno gli uomini dotati di pensiero critico. Cesare, nome che mantenne anche come soldato partigiano, dobbiamo immaginarcelo come un ragazzo sveglio, che lavorava nei campi, la cui chiamata in guerra rappresentò un punto di non ritorno.
«Durante il ventennio era assolutamente impossibile manifestare una ideologia ed era anche complicato potersene costruire una propria – è sempre Francesco D’Agostino che ci racconta – è difficile provare ad immaginare quegli anni per chi è abituato alla parola libera, alla comunicazione istantanea. In sostanza, chi era nato negli anni venti aveva conosciuto solo il fascismo, a scuola non formavano cittadini ma fascisti».
Sugli anni di guerra di Cesare si sa pochissimo: lo ritroviamo partigiano e poi eroe di patria, perché la sua fu una morte storicamente importante, una di quelle narrate nei romanzi di Pavese e Fenoglio, fu fucilato a Casteldelfino il 15 dicembre del 1944 dai nazifascisti.
Di questa tragica ed eroica parentesi di storia, Piero Balbo di Verzuolo, il famoso Capitano Nord a capo di una delle brigate partigiane nelle langhe raccontato da Beppe Fenoglio ne Il Partigiano Johnny ebbe a dire: «I quattro partigiani fucilati nella piazza di Casteldelfino il 15 dicembre del 1944 dai fascisti della divisione Monterosa, in pieno giorno e sotto gli occhi degli scolari, si chiamavano: Cesare De Bartolis, detto “Cesare”, partigiano GL, calabrese di Spilinga; Battista Ferrari, detto “Ferrari”, classe 1924, di Orzinuovi, partigiano garibaldino; Pietro Gallina, detto “Fatica”, classe 1905, di Piasco, partigiano garibaldino e Nicolai Rudaiev, detto “Nicolai”, di nazionalità russa, classe 1923, partigiano garibaldino. I primi tre vennero catturati dai fascisti del Battaglione Bassano, portati a Venasca e selvaggiamente torturati. Il russo, preso prigioniero sul ponte di Valcurta, era stato tra coloro che avevano invano tentato di liberare i prigionieri durante il trasferimento a Casteldelfino».
I partigiani GL erano legati al Partito d’Azione, ma spesso erano anche combattenti indipendenti, professanti un ideale laico e democratico. Cesare De Bartolis si trovò probabilmente a fare una scelta cruciale e radicale. «Dopo l’Armistizio – è ancora Francesco D’Agostino che racconta – l’Italia oltre ad essere divisa, era un paese in brandelli, io mi ricordo i soldati che tornavano con la barba lunga, senza vestiti, feriti, pieni di graffi e cicatrici. Coloro i quali partirono da soldati canonici anni prima, si ritrovarono a dover fare delle scelte: Cesare scelse la lotta in montagna».
Probabilmente una decisione maturata in quei mesi complicati, disperati, storicamente confusi, permeati dal sangue e dal rumore delle armi. Cesare dovette farsi strada sul campo e chissà i compagni che ha incontrato? Se ha vissuto amori da combattente in montagna? Aveva vent’anni e poco più, chissà quali erano i suoi sogni mentre impugnava il fucile? Se e quale Italia immaginava? a chi e cosa ha pensato prima di spirare a chilometri e chilometri di distanza da casa? Non lo sapremo mai. Eppure, Piero Balbo che ne ha ricordato la fucilazione, non era un uomo qualunque, al contrario, ma su tutta questa storia torneremo.
A Spilinga visse, come ci racconta sempre D’Agostino, anche un maestro antifascista, tra i pochi ad avere avuto una fede libertaria, quantunque mai manifestata durante il regime per paura: «Il mio maestro, Michele Pugliese, era indubbiamente un antifascista e non era comunista, era un uomo dal pensiero libero. Io ricordo che non cantava gli inni fascisti, credo non abbia mai preso parte ad un Sabato Fascista né ad alcuna parata e ci faceva ascoltare e cantare il Nabucco. E difatti, all’indomani dell’armistizio divenne Commissario con gli angloamericani e poi Sindaco per molti anni».
La storia italiana è convulsa, il passato recente è segnato da una ferita molto profonda, viene alla mente un romanzo di una scrittrice abruzzese, tale Laudomia Bonanni, si intitola “La Rappresaglia”, nel quale Laudomia dà la parola ad una partigiana filosofa, che smonta, dissacra, sfida il lettore di qualsiasi epoca, forte del suo coraggio e del suo disincanto.
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