L'auto distrutta di Giovanni Falcone
3 minuti per la letturaVIBO VALENTIA – Perché il sacrificio resti imperituro, perché quelle morti non vengano dimenticate, perché quelle vite non sono state spezzate invano. No, il loro esempio deve continuare a vivere nella memoria delle persone oneste. Cos’è la mafia?
Oggi, a Vibo, mai come in passato, essa assume una rappresentazione plastica e terribile di quelle lamiere accartocciate dell’auto di servizio di Giovanni Falcone, ospitata fino al 18 maggio presso la scuola allievi agenti di Polizia di Vibo, divenute la tomba di tre agenti della scorta del giudice antimafia che, insieme a loro e alla moglie Francesca Morvillo, trovò la morte in quel maledetto pomeriggio del 23 maggio del 1992. Erano persone coraggiose consapevoli che a causa della loro scelta prima o poi la “piovra” con i suoi lunghi tentacoli che arrivavano anche alle sfere istituzionali avrebbe presentato loro un conto salato da pagare con la vita.
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Eppure il senso del dovere ha prevalso. Quel groviglio di lamiere che segna sul contachilometri la cifra 100.287 e che custodì per oltre due ore quel che restava dei corpi dilaniati di Vito Schifani, Rocco Di Cillo, e Antonio Montinaro, rappresenta il grado massimo di violenza che la criminalità organizzata è in capace di raggiungere per eliminare ogni pericolo che mina alla sua sopravvivenza.
LEGGI L’ANNUNCIO DELL’ARRIVO A VIBO
DELL’AUTOMOBILE DI GIOVANNI FALCONE
Gli occhi dei ragazzi delle scuole del vibonese forse proprio nel vedere quella Lancia Croma hanno compreso appieno le parole pronunciate poco prima da Tina Montinaro. Parole pregne di dolore per la perdita di un uomo che amava e del quale continua a portare, fieramente, l’esempio in tutta Italia. Parole interrotte dall’emozione e dalle lacrime quando ricorda lo straziante momento del riconoscimento di quel che restava del marito: “Lo riconobbi solo dalla mano perché era solito mangiarsi le unghie. Lo trovai con le dita incrociate perché diceva sempre che il lavoro che svolgeva era ad altissimo rischio. Eppure lo aveva scelto perché era quello il suo dovere”.
Nel dibattito moderato dal capo della redazione calabrese dell’Ansa, Ezio De Domenico, la signora Tina si rivolge ai ragazzi presenti all’auditorium della Scuola di polizia, li esorta a non piegarsi mai di fronte a chi “vuole rubarvi il futuro, i sogni, la libertà”.
Accanto a lei due uomini dello Stato che la mafia l’hanno combattuta in prima fila negli anni caldi di una Sicilia sconvolta dagli omicidi e dalle stragi, Ottavio Sferlazza, procuratore di Palmi, e Guido Longo, prefetto di Vibo: il primo allievo di un altro magistrato antimafia come Paolo Borsellino che verrà trucidato con le stesse barbare modalità 57 giorni il collega Falcone, e il secondo che si occupava, nel maggio del 1992, della scorta del giudice istruttore. Una Sicilia che però, dopo quei due terribili avvenimenti, iniziò a veder germogliare i semi del riscatto tutt’oggi in atto.
Ma forse quelle parole non avrebbero avuto una forza così incisiva se non fossero state accompagnate dall’immagine di quell’auto distrutta. Come far capire alle giovani generazioni a quel tempo non ancora nate, cosa sia la mafia è sufficiente guardare quella Fiat Croma accartocciata in cui trovarono la morte delle persone perbene, delle persone coraggiose.
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