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Civili ucraini in fuga dai bombardamenti

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VIBO VALENTIA – Donne, madri, lavoratrici, vivono in Italia da molti anni, ma hanno i figli in patria che in queste ore stanno vivendo uno tra i momenti storicamente più drammatici del nuovo millennio, almeno per l’Europa.

Camminano per le nostre strade risucchiate in un vortice di paura, angoscia, inquietudine, proviamo ad indossare i loro panni, mentre pensano alle famiglie sotto le bombe tra fughe e rifugi, in una Europa dove dalla mattina di un giovedì grasso è calata una cortina di fuoco.

Chi lo avrebbe mai detto? Addormentarsi nel 2022 e svegliarsi in un polveroso Novecento, fatto di molotov e trincee, resistenza e profughi, che sa tremendamente di morte e fame. La voce di Nadia al telefono è energica, non perde forze e speranze, pensa a come poter aiutare i connazionali in patria, si unisce a sua figlia che in queste ore sta facendo volontariato nella sua città, dove ormai serve tutto: pane, pannolini, acqua, assorbenti, coperte.

Nadia, originaria di Cernivci, città dell’Ucraina occidentale, ha avviato nei giorni una raccolta fondi a Vibo, per sostenere concretamente il suo Paese, ci racconta da dove nasce l’iniziativa: «Io vivo a Vibo da 20 anni ed esiste una comunità di ucraini abbastanza nutrita, ci riuniamo in chiesa e una volta al mese viene pure il nostro parroco per le celebrazioni in lingua ucraina. Ho intrapreso immediatamente – aggiunge Nadia – questa raccolta fondi da inviare al mio paese, provo così ad aiutare la mia gente. E voglio ringraziare fervidamente le persone che hanno partecipato, rispondendo all’appello».

Nadia Riabova

Mentre vi raccontiamo questa storia è in corso un delicato negoziato, a Kharkiv le cronache di guerra ci riportano una moltitudine di morti, a Kiev la tensione è crescente. La vita quotidiana di un popolo si è trasformata in un crogiolarsi tra la paura di morire e l’istinto vitale di sopravvivenza. Lo sa bene la signora Nadia, che sente i figli al telefono tre-quattro volte al giorno: «Dormono poco e vestiti, hanno la borsa pronta sempre sotto mano, perché si scappa in ogni momento. La città dove vivono i miei cari è piena di profughi, perché è stata meno colpita rispetto ad atri centri, come la Capitale stessa; e perciò, si ritrovano famiglie che sono fuggite a mani nude, ma che dovranno pur sopravvivere nei prossimi giorni».

Fanno impressione le immagini dei profughi con il sacchettino di plastica sulle spalle, il gatto o il cane tra le braccia e lo sguardo perso nell’angoscia. Nadia era solita recarsi in patria dai figli almeno una volta l’anno, nella sua voce percepiamo un filo di orgoglio e resistenza, la voglia di non lasciarsi trasportare dalla disperazione del tutto è perduto. Una Resistenza che si fa anche a distanza, raccogliendo fondi e coperte, con il telefono in mano e il fiato sospeso. Non si sa quale sia la situazione sui campi dove si combatte, quanti siano realmente i caduti, semplicemente guardiamo smarriti gli schermi, perché questa è una guerra di informazione; cogliamo il dolore di Nadia e di tutte le donne e gli uomini che pregano per figli e genitori. Mentre leggerete questa storia sapremo qualcosa in più sull’esito del negoziato, sperando non sia stata una strategia. È imprevedibile la storia agli occhi della gente di strada, di chi vede una Capitale assediata e ascolta un glossario che aveva letto sui manuali di storia. Fa paura una guerra in Europa, soprattutto un conflitto urbano, ci riscopriamo fragili figli di un ’900 che odora dannatamente di munizioni e cenere.

Si è steso un velo di tensione sul mondo, la situazione si evolverà e anche nella migliore dell’ipotesi, resterà un clima di ostilità e incertezza, quel senso inesorabile di precarietà che caratterizza i momenti storicamente difficili. Vivevamo nell’illusione del mondo libero, ora stringiamo le cartine tra le mani e fissiamo i confini.

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