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Il Questore di Vibo Rodolfo Ruperti, già protagonista di importanti operazioni anti ’ndrangheta, invita a non abbassare la guardia: «Nonostante i colpi assestati, sarebbe un grave errore»


NEGLI anni 2000/2007 era capo della Mobile e nel Vibonese lo chiamavano “il cane da caccia” (absit iniuria verbis), per la sua straordinaria capacità di contrastare e scovare capi e gregari delle varie consorterie ’ndranghetistiche della zona. Da aprile è il nuovo questore, una postazione prestigiosa, che ha un’ottica molto diversa rispetto all’attività investigativa sul campo.
L’arrivo di Rodolfo Ruperti, 59 anni, origini crotonesi, in polizia dal 1994, è stato salutato con favore dai vibonesi, memori di un passato non molto lontano. In questa sua prima intervista esclusiva al Quotidiano ricordi, analisi e progetti di un questore a capo dell’ordine pubblico di una provincia indubbiamente complicata.

Intanto, Questore Ruperti, il suo ritorno a Vibo: lo ha chiesto Lei o ha deciso il ministero?

«È stata una scelta ministeriale, che io ho accolto con molto piacere».

A capo della Squadra Mobile vibonese ha indubbiamente lasciato il segno, con tante importanti operazioni soprattutto contro la ‘ndrangheta. Che ricordo ha di quel periodo?

«Se lo raffronto ad oggi, devo dire che sul piano dell’ordine pubblico c’è stato un notevole miglioramento. A quei tempi eravamo alle prese con feroci lotte interne alle varie consorterie ’ndranghetistiche, anche di primo piano come i Mancuso di Limbadi».

E voi vi siete dati molto da fare.

«Beh, sì, abbiamo condotto varie operazioni che hanno disarticolato i clan e hanno portato a sancire il 416 bis, presupposto fondamentale per poter poi continuare a lavorare in quella direzione».

Tante nottate sul campo.

«Beh, sì, coi miei collaboratori ne abbiamo fatte parecchie. Ma (sorride) qualche risultato è arrivato, no?».

Da Vibo a Caserta, da Catanzaro a Palermo, sempre a lottare sul campo contro le consorterie mafiose. Ha mai avuto paura?

«Sinceramente no. Facevo il mio lavoro. No, non ho mai avuto paura».

Lei ha avuto a che fare con, in ordine di tempo, ’ndrangheta, camorra e mafia. Si sarà fatta un’idea di quale tra loro sia è la più pericolosa.

«Non riesco a fare una classifica di pericolosità. Il loro fine ultimo è sempre lo stesso: tenere sotto scacco le comunità e di arricchirsi. Poi, il metodo può essere più o meno violento, dipende da quanta assuefazione riscontrano nella gente».

Cambio la domanda: chi l’ha fatta sudare di più?

«A Catanzaro come Squadra Mobile distrettuale ci occupavamo di feroci faide tra i clan: basso Jonio catanzarese, Lamezia, Vibo. Omicidi a iosa, insomma. Ecco forse quello è stato il periodo un po’ più “intenso”».

Diciamo che la ’ndrangheta le ha dato parecchio da fare.

«Diciamo così».

Ora, dopo tanta Squadra mobile, Ruperti è tornato a Vibo a capo della questura, lavorare dietro la scrivania come questore è tutt’altra cosa…

«Beh sì, è una responsabilità completamente diversa. La questura è fatta di tante componenti che devono lavorare in sinergia. Più sinergia c’è maggiore sicurezza si può offrire ai cittadini».

Niente compartimenti stagni, insomma.

«Esatto. Io esigo dai miei funzionari che tra loro ci sia costante dialogo, che si scambino continuamente tutte le informazioni “fredde”, quelle cioè che si possono scambiare. E’ la strategia vincente per migliorare il livello della nostra offerta di ordine e sicurezza ai cittadini».

Dica la verità, le manca l’attività investigativa sul campo? Quella, per restare a Vibo, del famoso duo Ruperti/Zampaglione?

«Lei fa cenno a Vibo ma io ho avuto molte altre esperienze con tantissimi altri validi collaboratori. Li ricordo tutti con grande affetto».

Aveva una grande squadra.

«Proprio così. A prescindere dalle capacità investigative, davvero notevoli, si era creato tra noi un gruppo molto coeso e motivato, c’era costante sinergia con l’autorità giudiziaria e le altre forze dell’ordine, c’era grande supporto da tutti i questori del tempo e dallo Sco, il Servizio centrale operativo di Roma»

Rimpiange un po’ quei tempi?

«Un po’ sì ma fanno ormai parte del mio passato. Per altro, da un po’ d’anni ero vicario, mi occupavo di altre tematiche. Certo, poi quel bagaglio di esperienze ti è prezioso nel tuo nuovo e più importante ruolo».

Al suo ritorno a Vibo in molti hanno commentato: ci saranno di sicuro altre grosse operazioni. Sarà davvero così?

«In questura l’attività di polizia giudiziaria è diretta dal capo della Mobile, i cui primi punti di riferimento sono la Procura distrettuale di Catanzaro e quella ordinaria di Vibo. Noto con piacere che c’è una fortissima sinergia, e che c’è un ottimo rapporto tra le due procure».

Dobbiamo dunque aspettarci nuove importanti operazioni antindrangheta?

«Guardi (sorride) il nostro lavoro punta anche a questo».

In passato la provincia di Vibo era considerata ad alta densità mafiosa, in cui spadroneggiavano soprattutto i Mancuso di Limbadi, con vari altri clan mafiosi di minore spessore criminale. Oggi è ancora così o possiamo dire che il Vibonese si è sostanzialmente emancipato dai Mancuso?

«Sicuramente la situazione è cambiata. In meglio. Quando sono arrivato a Vibo tutti i capi dei vari sodalizi criminali erano in campo. Poi però i clan sono stati disarticolati dalle varie operazioni della Dda condotte da noi, dai carabinieri e dalla Gdf. Qualcosa perciò è cambiato, sì, ma non bisogna mai abbassare la guardia perché sono fenomeni che si possono rigenerare».

Insomma, dice lei, la ’ndrangheta la si può sconfiggere solo insieme.

«Sì. È chiaro che il lavoro più importante è il nostro, delle altre forze di polizia, della magistratura. Siamo noi che dobbiamo infondere maggiore fiducia alla gente, affinché trovi il coraggio di scrollarsi di dosso l’eventuale omertà. Meno omertà vuol dire più denuncia e, quindi, più sicurezza».

Stante la quantità di scioglimenti di consigli comunali il Vibonese dà l’idea di un territorio permeato dall’illegalità. Non è ingiusto questo? Insomma, c’è tanta gente per la quale la legalità è un valore.

«Ha ragione. Sono fermamente convinto che ci sia tanta gente, anzi la stragrande maggioranza della popolazione vibonese che coltiva il valore della legalità. Certo la presenza di tanti elementi mafiosi rende reale la possibilità di infiltrazioni nelle varie amministrazioni. Per cui queste devono stare molto attente. Così come anche i partiti devono scegliere bene i loro candidati».

Da quando è arrivato, il numero delle pattuglie è indubbiamente aumentato, si vedono più agenti in giro. Insomma, c’è più prevenzione.

«Si tratta di servizi straordinari di controllo del territorio, pianificati con la prefettura, che ci vedono protagonisti, insieme alle altre forze dell’ordine».

Qual è la ratio di questo suo modo di agire?

«Credo molto nell’importanza della prevenzione, che va fatta in maniera mirata e coordinata con la Divisione anticrimine, perché dall’attività di prevenzione si possono ricavare importanti spunti investigativi. Essa poi è fondamentale per garantire una sana movida, far sì cioè che in tutti i punti di aggregazione, frequentati da giovani e non solo, ci sia sempre sicurezza».

Quale messaggio si sente di rivolgere ai vibonesi?

«Di continuare a denunciare episodi o situazioni sospette, si tratti di odore di mafia o di criminalità diffusa. La denuncia è per noi un motore che ci indirizza nella direzione giusta. Intendiamoci, la collaborazione dei cittadini vibonesi c’è, e questo è giusto dirlo, ma a mio avviso deve continuare a crescere».

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