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Il pentito Vincenzo Pasquino su Franco D’Onofrio, coinvolto nell’operazione “Factotum” della Gdf e Dda di Torino, e parla anche dei rapporti tra l’indagato e Micu Alvaro e aggiunge: “Nel carcere comandava lui e la città era suddivisa in zone di influenza dei clan calabresi”


VIBO VALENTIA – “Franco D’Onofrio ha una storia superiore a molti, compresi i Crea, non ha bisogno di utilizzare ad esempio il loro nome anche se dico che attiva con loro, poiché ha già il suo”; il ritratto dell’ex brigatista, presunto esponente di vertice del clan Bonavota di Sant’Onofrio e non solo, è ad opera del neo pentito Vincenzo Pasquino in uno dei verbali allegati alle carte dell’inchiesta antimafia “Factotum”.

Il pentito tratteggia la figura dell’indagato in termini di assoluto spessore criminale affermando che questi “fa parte del “Crimine di Torino”, insieme ad altri soggetti di spessore. Può attivare dove vuole – aggiunge agli investigatori della Dda torinese – vale a dire che lui non è come gli altri che rappresentano una sola famiglia, ma viene rispettato da lutti e cammina proprio con il suo nome, in quanto Franco D’Onofrio. Poi, chiaro che è originario di quella famiglia, ma lui ha proprio un suo nome individuale”.

IL PENTITO SUI RAPPORTI TRA D’ONOFRIO E “MICU” ALVARO

E il fatto che D’Onofrio rappresenti Torino, il pentito dichiara di averlo saputo per via della sua frequentazione e che ciò è noto “in quanto ha una storia che fa paura poiché uomo d’azione”; un rispetto che il pentito, secondo quanto emerge dal verbale allegato al fermo di Factotum, nutriva da sempre verso Franco D’Onofrio che aveva il rispetto di una figura di primissimo ordine del panorama ’ndranghetista come Domenico “Micu” Alvaro; “L’ho incontrato diverse volte quando accompagnavo “Micu” Alvaro a parlare con lui. In quel periodo, ovvero nel 2012-2014, egli portava rispetto soltanto a due persone: Antonio Agresta cl.’60 e a D’Onofrio, che non è uno che si sedeva a tavola con tutti”.

Alvaro parlava spesso “con Franco D’Onofrio di “pidocchia”, cioè di ‘ndrangheta”, racconta ancora Pasquino ricordando che entrambi, dopo essere usciti dal bar, “camminavano avanti e io e Antonio Serratore dietro. Poi “Micu” Alvaro si fidava ciecamente di me e mi raccontava che cosa si erano detti. Ad esempio mi diceva: “A Franco gli stai simpatico, ti porta avanti vedrai”, oppure mi riferì il fatto di dover menare quelli del supermercato”.

IL PENTITO: “GIÀ QUANDO ERO GIOVANE SI DICEVA CHE FOSSE UN AZIONISTA”

Pasquino ha un ricordo dell’indagato risalente nel tempo, fin da quando i suoi familiari già gli parlavano di lui dicendo “che era un azionista” ma di non ricordare con esattezza il suo primo incontro con lui, pur dicendosi sicuro che sia avvenuto prima del 2012, e quindi prima dell’inchiesta “Minotauro”, dopo di che – continua il pentito –  l’ha “rivisto più volte al bar di Moncalieri (provincia di Torino, ndr) vicino ai portici, nel periodo successivo al carcere (io esco nel 2014); andavo con “Micu” Alvaro dopo che ci aveva “preso” l’appuntamento Antonio Serratore, il cugino di Bonavota che era a fianco di Franco D’Onofrio e faceva il suo segretario e quando noi volevamo un appuntamento con lui chiamavamo Antonio, per il quale D’Onofrio era l’ossigeno, che ci mandava un ‘ambasciata: “Venite a questo bar o a quest’altro bar, ho visto dei movimenti sospetti””.

“D’ONOFRIO COMANDAVA NEL CARCERE DI TORINO”

Lo spessore di D’Onofrio sarebbe stato così elevato da comandare addirittura nel carcere di Le Vallette, a Torino: “Quando è entrato nel penitenziario – ricorda ancora il pentito -, comandava lui. Me lo dicevano gli Agresta, Paolo Praticò, “Micu” Alvaro”. E non è solo questo, ma l’indagato avrebbe addirittura dato il permesso agli indagati in “Minotauro” di sostenere il giudizio abbreviato al processo: “Quando hanno stabilito di andare in abbreviato, tutta la squadra dei Crea ha mandato un’ambasciata a Franco D’Onofrio in carcere per chiedere il permesso. Per il patteggiamento, tutti hanno mandato l’ambasciata a Platì e a Milano per fare il patteggiamento che avevano concesso l’autorizzazione ma a dare il permesso fu D’Onofrio. In un processo così importante non si poteva patteggiare senza autorizzazione”.

E tale frangente, Vincenzo Pasquino afferma di averlo appreso proprio perché in quel periodo anche lui si trovava ristretto nella casa circondariale torinese: “Ero in carcere e ho sentito Paolo Praticò, Vincenzo Argirò, Cosimo ed Adolfo Crea e Peppe Minniti  dire: “Dobbiamo sentire compare Franco”. Noi quel periodo lì facevamo quello che volevamo alle Vallette, le torte dal blocco C le mandavamo al blocco A. Il carcere era in mano nostra. Avevamo le forbici, perché non davano le mandate ed aprivamo le porte. Solo la droga non entrava”.

IL PENTITO: “D’ONOFRIO SEMBRAVA UN AVVOCATO MA ERA UN CRIMINALE”

Anche il collaboratore di giustizia era al corrente della disponibilità di armi da parte di D’Onofrio evidenziando che quelle che avevano sequestrato a Serratore, nel 2016, fossero proprio le sue, mentre con riferimento alla presunta “protezione delle aziende”, il pentito rispondeva al pm di non essere a conoscenza di episodi specifici ma precisando che “tutti sapevamo che, per esempio ne! caso del supermercato, se c’era dietro Franco D’Onofrio, nessuno andava a chiedere soldi o a fare estorsioni”.

L’ex brigatista aveva “l’aspetto di avvocato quando parlava con gli imprenditori”, riferisce ancora Pasquino, che probabilmente ne era rimasto affascinato: “Sapeva porgersi, si presentava bene, si muoveva bene con loro ma poi era un criminale, solo che quando gli altri se ne accorgevano era troppo tardi. “Micu” Alvaro, invece, ogni due parole una era parolaccia, D’Onofrio non era così”. Era insomma “impressionante” aggiunge il collaboratore per come confermatogli da un’altra persona con la quale l’indagato avrebbe avuto in comune delle cliniche: “Ricava soldi da tutte altre attività come estorsioni, protezione aziende, cliniche, lui ha cervello e si siede a tavola solo per cose molto serie”.

Scrive, in “Factotum”, la Dda di Torino sul punto, a rafforzare le parole del pentito Pasquino, che “la capacità d’intervento e soluzione in dissidi privati di D’Onofrio discendono in realtà dalla forza d’intimidazione che promana dal vincolo di adesione alla ‘ndrangheta. L’indagato risolve i conflitti non sulla base del diritto, o comunque della composizione bonaria degli interessi alla stregua di un arbitro incaricato da entrambi i contendenti, ma in ragione del suo ruolo di vertice in seno ad un’organizzazione mafiosa ed al coinvolgimento richiesto da una sola delle parti. Sono dunque l’intimidazione e l’assoggettamento che determinano l’accettazione delle sue unilaterali decisioni”.

L’INCHIESTA FACTOTUM: “LA CITTÀ DI TORINO SUDDIVISA TRA I CLAN DI ‘NDRANGHETA”

Ciò che poi emerge dalle parole di Pasquino è anche la suddivisione del capoluogo piemontese da parte delle articolazioni di ndrangheta che operano in città e ne racconta succintamente la storia: “Prima che arrivassero i Crea, il “Crimine” ce lo aveva Natale Romeo di San Giusto e la città era loro. Non si muoveva una foglia se non passava prima da lui. Poi sono arrivati i Crea che si sono introdotti tutte le bande ed hanno preso il “Crimine” loro e per questo era necessaria un’autorizzazione da Polsi, che è arrivata. I Crea pagavano i Pelle per poter arrivare al Crimine e sono arrivati per scappare alla faida del loro paese (Stilo), anche se non ricordo l’anno”.

La consorteria però finisce col perdere potere prima con l’operazione “Minotauro” e poi con “Big Bang”. Ma a quel punto il collaboratore non era più a Torino e non ha elementi per riferire altro pur aggiungendo che per quanto a sua conoscenza “all’epoca c’erano i Crea e poi c’era l’area di Moncalieri che era di Franco D’Onofrio; il periodo è sempre quello, 2014, dopo il mio carcere. E quest’ultimo insieme a Paolo Praticò se li mettono in tasca i due fratelli Crea che non hanno paura di nessuno, parlano anche nei colloqui pur sapendo che ci sono le microspie. Hanno paura solo dei Gallace e dei Novella e, ovviamente, di Franco D’Onofrio che rispettano più che avere paura di lui”.

FRANCO D’ONOFRIO SEDEVA NEL “CRIMINE” DI TORINO

Sempre nelle carte dell’inchiesta Factotum il pentito spiega che la figura di D’Onofrio era così preminente da “sedere nel Crimine di Torino. Che io sapessi era con i Crea, Praticò, Vincenzo Argirò e Natale Romeo e questo sia prima che dopo Minotauro. Tra l’altro, Romeo ha ancora i fogli storici della ’ndrangheta nei muri”. Micu Alvaro invece era nel Crimine “di giù” e pertanto “era più alto di loro e quando è uscito dal carcere manco si è “chiamato il posto” con questa espressione intendo dire, che quando uno esce dal carcere, magari è originario di giù e nel mentre la famiglia si è trasferita a Chivasso ad esempio, deve “chiamare il posto”, cioè dire “sono Mario Rossi, sto qua e rappresento con voi e mi appoggio a questa famiglia”. No, Alvaro non lo ha fatto”.

Pasquino menziona anche una confidenza fattagli da Carlo Pezzolato il quale “mi ha raccontato che in carcere “Micu “Alvaro, in sezione diceva: “Se i Crea hanno le chiavi di Torino, quando esco faccio il Papa”, nel senso che manco li vedeva. Questa frase mi è stata confermata anche da lui stesso. E il fatto che quest’ultimo come Franco D’Onofrio, si muovessero da soli, comportava che a me, nel momento in cui mi chiedevano con chi attivavo, non sapevo rispondere un Locale preciso ma dicevo: “con “Micu” Alvaro”. Stessa cosa, come ho detto, per D’Onofrio”.

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