Emanuele Mancuso
4 minuti per la letturaPER lui era come un figlio, perché anche il suo era dell’89. Lo prese praticamente sotto la sua ala protettiva cercando di farli superare quel particolare momento in cui era emotivamente molto fragile per via della decisione di collaborare con la Dda e, quindi, “tradire” il sangue del suo sangue con il pericolo di non rivedere più la sua bambina.
Antonio Cossidente, ex componente del gruppo dei Basilischi, in Basilicata, parla di Emanuele Mancuso e lo fa diffusamente nei due verbali recentemente versati dalla Dda nel processo per le presunte pressioni messe in atto dai familiari del giovane per costringerlo a ritrattare.
Come finì la vicenda è noto, ciò che ancora invece non era stato rivelato è appunto il rapporto tra i due pentiti e le confidenze che ne sono scaturite, in particolare da parte dell’ex rampollo di casa Mancuso nei confronti della sua nuova conoscenza, iniziata in un furgone blindato che stava scortando entrambi nel carcere di Rebibbia e proseguita dividendo la stessa cella nel carcere di Paliano, dove il giovane era arrivato da poco ma un tempo sufficiente per essere pestato da un altro detenuto. Fu allora che Cossidente – che sta scontando una pena per duplice omicidio, narcotraffico ed altro, prese il 31enne con sé.
E da lì, il ragazzo iniziò a sfogarsi raccontando la difficile situazione familiare: «Mi parlò dei problemi che aveva con la famiglia. Mi riferiva che lui veniva pressato sia dalla compagna Nensy, sia dalla madre che aveva un nome singolare – ricordo si chiamasse Ortensia – nonché da una zia che aveva un panificio, perché non volevano che lui collaborasse con la giustizia e lo privavano della presenza della figlia e della possibilità di vederla».
Col passare dei giorni Cossidente si affezionò a questo ragazzo: «Per me era diventato come un figlio, anche perché il mio è dell’89 ed ha quasi la sua stessa età: Emanuele era come mio figlio che non potevo vedere, per via della mia decisione di collaborare, infatti lui aveva ritenuto di non seguirmi nella mia scelta».
Lo aveva preso a cuore divenendo, di fatto il suo mentore, di fatto un secondo padre: «Proprio come avrei fatto con mio figlio, cercavo di fargli capire come doveva comportarsi in carcere, anche di fronte ad altri detenuti, anche con suoi corregionali che dicevano “questo ha collaborato per una cavolata e sta rovinando una famiglia”» quasi come se ci fosse una scala di valori per pentirsi.
E infatti Cossidente riferiva proprio questo: «Evidenziavano che per i fatti poco gravi di cui Emanuele rispondeva, avrebbe potuto evitare di collaborare con la giustizia, mentre in carcere c’era gente che rispondeva di omicidi. Io gli dicevo che era strano che dei collaboratori gli affermassero cose del genere, anzi ammiravo più lui che aveva collaborato nonostante rispondesse di reati minori che gli avrebbero comportato una pena detentiva bassa, mentre altri avevano compiuto questa scelta solo perché erano già “rovinati” avendo commesso reati ben più gravi. Quella di Emanuele – ha riferito il pentito – era stata una scelta di vita e non di convenienza».
Il rampollo di casa Mancuso viveva una situazione difficile ma questa era amplificata anche dalla paura che nutriva nei confronti del fratello Giuseppe «che all’epoca – riferisce ancora Cossidente – era latitante e Emanuele mi disse di essere stato minacciato da lui quando era nel carcere di Reggio, mandandogli a dire, se non ricordo male con una lettera, che lo avrebbe ammazzato. Infatti mi disse: “Io lo conosco bene, anche se è il più piccolo è un’azionista della famiglia, è uno che gli omicidi li ha fatti davvero e se ha detto che mi ammazza, sa come farlo”».
Parlando, successivamente, della famiglia Mancuso, Antonio Cossidente aveva saputo da Emanuele quanto fosse economicamente potente: «Otteneva sempre tutto quello che voleva e mi disse che se la madre avesse avuto bisogno in quel preciso momento di un milione di euro in contanti, lo avrebbe trovato. Mi ripeteva: “Tu non immagini il potere economico della famiglia Mancuso. Ci sono tanti milioni di euro liquidi, in contanti, della cui disponibilità mia madre e la mia famiglia possono contare”».
Il giovane riferì poi al suo “mentore” un episodio a sostegno di quelle parole: «Mi raccontava che, prima della sua collaborazione, era andato a Roma con la madre a portare dei soldi all’avvocato che all’epoca difendeva il fratello e che gli avevano portato, occultandoli nel sottotetto dell’auto, ben 100mila euro in contanti e successivamente la madre si era recata a trovare il padre, in quel periodo latitante: penso si incontrò con lui in Umbria, dove avevano importanti appoggi».
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