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SORIANO (VIBO) – L’omicidio è un male pubblico, mai “privato”, mai di un singolo. È un crimine perpetrato non solo ai danni della vittima e dei suoi familiari, ma anche della comunità e dello Stato, coinvolge e riguarda tutti.
Filippo Ceravolo, il 19 enne ucciso 9 anni fa per errore dalla ’ndrangheta, è nella “lista” delle vittime che attendono giustizia, è morte atroce, crudele e impunita, è attesa straziante di un verdetto che tarda ad arrivare e complica, acuisce il prolungamento delle fasi del lutto per i familiari: «Sono 9 anni che aspetto giustizia – scrive sulla sua pagina Facebook, il papa, Martino Ceravolo – ringrazio chi ci è stato vicino, ma per protestare alla giustizia che non abbiamo avuto, smetterò di presenziare a manifestazioni, conferenze stampa e incontri nelle scuole».
Parole dure, le sue, che arrivano a commento della notizia sulla fine della carcerazione di Giovanni Brusca, il boss di “Cosa nostra” che, tra i tanti delitti commessi, fece sciogliere nell’acido il piccolo Santino Di Matteo. Un ragazzino che non aveva alcuna colpa. Così come il suo Filippo.
È stanco ormai da tempo, Martino, il papà simbolo di tenacia e capace di gesti forti, come quando nel 2016 si è incatenato dinanzi la Corte d’Appello di Catanzaro, sede, anche, della Procura distrettuale antimafia, dopo la richiesta dell’archiviazione delle indagini per l’assassinio del figlio, riconosciuto vittima innocente della mafia 2 anni prima.
È stanco, Martino, saturo di appelli indirizzati alla magistratura, al Governo, a chiunque rappresenti lo Stato e possa dare una risposta, un cenno di speranza, affinché la morte di Filippo non resti un caso insoluto «mi chiuderò nel mio dolore – ha affermato – ormai sono sicuro che l’80% delle vittime di mafia non avrà mai giustizia».
Quella di Filippo è una tragedia che inizia e si conclude la sera del 25 ottobre 2012, quando una pioggia di proiettili investe l’auto su cui viaggiava il giovane, in compagnia di un’altra persona, nel territorio comunale di Pizzoni. Attinto a diverse parti del corpo, il giovane spirerà poco dopo all’ospedale di Vibo: «Me l’hanno ammazzato e i responsabili sono ancora liberi – lo sfogo del papà – l’iter giudiziario è inaccettabile. Non ho pace».
La valutazione negativa dell’operato del sistema di giustizia criminale, si è fatta spazio, nella famiglia Ceravolo, dopo quasi 10 anni di attesa. Anni di profonda disperazione e dignitosa speranza in una giustizia che funzioni, che è un punto cardine di un sistema volto a tutelare i diritti di tutti, della società.
Ma spesso tarda ad arrivare e se a invocarla, è un padre di famiglia a cui una guerra tra faide ha portato via un figlio neanche ventenne, riconosciuto vittima innocente di mafia, il macigno da sopportare diviene di tutti e si poggia sul dolore quanto sulla percezione sociale del senso di giustizia, che rischia di aprirsi al varco della rassegnazione.
Martino Ceravolo, è un uomo che cerca umanità, senso di civiltà nella sopravvivenza al dolore, e lo fa nell’unico modo previsto in uno Stato di diritto: chiedendo giustizia e, nonostante nelle sue ultime dichiarazioni, appaia evidente un flebile passo alla rassegnazione, la fiducia nella magistratura stenta realmente a vacillare: «La famiglia Ceravolo sta attraversando un comprensibile momento di stanchezza – ha precisato Michele Gigliotti, legale della famiglia – Occorre grande pazienza perché le indagini della Dda (prima archiviate nonostante la presenza di indagati e poi riaperte, ndr) richiedano un tempo particolare e i riscontri del caso vanno vagliati con cura e professionalità. Ho grande fiducia nell’operato della magistratura e la ha anche Martino, nella speranza che tutti comprendano qual è il peso da sopportare per questa famiglia consapevoli dell’innocenza del ragazzo. Il silenzio e la “sfiducia” a cui oggi fa accenno Martino, altri non sono che un appello al Procuratore Gratteri: Fate presto!».
Con proteste coraggiose e appelli colmi d’amore e dignità, papà Martino è alla ricerca della verità, da quella maledetta sera, quando suo figlio non ha fatto più rientro a casa, perché caduto in un agguato di stampo mafioso.
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