Una donna medico
3 minuti per la letturadi LOREDANA PILEGI*
La storia di Sara Pedri, ginecologa specializzata a Catanzaro, scomparsa in Trentino, dove era in forze presso l’ospedale di Trento, pone d’obbligo alcune riflessioni.
La storia la conosciamo: dottoressa brillante, specializzata in ginecologia (il suo sogno) presso l’università di Catanzaro ed assunta all’ospedale di Trento, dove si trova ad essere bersaglio di atteggiamenti denigratori e razzisti (questi ultimi per la sua sede di specializzazione).
Mi chiedo: sarebbe stata la stessa cosa se al suo posto ci fosse stato un uomo? Non credo.
In un mondo, quello sanitario, dove la sanità rosa sta superando in numero quella maschile (e se ancora non lo è complessivamente è per il numero maggiore di uomini al di sopra dei 60 anni, mentre al di sotto dei 30, è ampiamente superata), ancora oggi assistiamo ad episodi di discriminazione per il sesso.
Purtroppo ancora oggi (certo, per fortuna, non è sempre così) la presenza femminile in campo sanitario viene vista come subalterna e di contorno a quella maschile, con diritti negati (vedi l’astensione dalle notti che toccherebbe di diritto alle neo mamme medico e che, il più delle volte, viene fatta passare come benevola concessione del primario, e con i colleghi “scocciati” perché si devono caricare le notti di “quella”).
Le donne medico devono sudare più dei colleghi maschi per vedersi valorizzare, partendo da un gap negativo nella considerazione generale dei pazienti (quante volte abbiamo assistito alla classica scena dell’infermiere in divisa e della dottoressa in camice, dove lui è il dottore e lei la signorina), e dei colleghi.
Il mondo lavorativo sanitario è ancora oggi codificato su parametri maschili, con una turnistica di lavoro ingabbiata in orari rigidi (8-14/14-20/20-8) che non lascia molto spazio ad una conciliazione famiglia/lavoro, ed è così che uno svantaggio iniziale (legato al sesso) diventa incolmabile con il passare del tempo, dove la donna medico fa fatica a seguire come un uomo, tutti gli impegni lavorativi, e chi lo fa, lascia sul campo la propria vita affettiva e familiare.
Se a questo aggiungiamo un carattere misogino di qualche primario ed una debolezza complessiva di una struttura sanitaria che non sa difendere le proprie donne medico, arriviamo al caso di Sara, denigrata ed umiliata per mesi e mesi, in maniera ingiustificata, non riesce a reagire, chiudendosi sempre di più in sé stessa ed entrando il quel tunnel della disperazione che l’ha condotta a far perdere le tracce di sé (ci piace pensare che sia viva ed in un luogo dove sia apprezzata come donna e come medico).
Ecco, in una società ed in mondo sanitario, dove le donne hanno dato un contributo che ha fatto e fa la differenza in termini di scienze ed umanità, non vorremmo più leggere di casi come quello di Sara, la Dottoressa Sara Pedri.
*Presidente provinciale Donne medico di Vibo Valentia
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