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Il collaboratore di giustizia, Francesco Fortuna

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I racconti del collaboratore di giustizia Francesco Fortuna sulle ingerenze dei clan Mancuso, Bonavota e Anello sulle attività commerciali e turistiche del Vibonese e sulle figure degli imprenditori Stillitani per i quali “la cosca di Sant’Onofrio non procacciò voti”. Nei verbali anche il passaggio sulla gestione della latitanza di Giuseppe De Stefano


VIBO VALENTIA – Le attività commerciali sotto estorsione dai clan Mancuso, Bonavota e Anello, le figure degli imprenditori Facciolo e Stillitani, la faida degli anni ’90 a Sant’Onofrio sono gli argomenti trattati dal collaboratore di giustizia Francesco Fortuna nei verbali rilasciati ai magistrati della Dda di Catanzaro.

LE ESTORSIONI NELL’AREA INDUSTRIALE AD OPERA DEI CLAN BONAVOTA E MANCUSO

Il pentito inizialmente racconta delle attività assoggettate ad estorsione indicando quelle della zona industriale di Maierato come  «il supermercato che all’epoca si chiamava Sisa ed un altro, sorto negli anni successivi, ciò dopo il 2010». Era lui ad occuparsi di riscuotere le somme al supermercato per conto del clan che «pretendeva anche assunzioni e pagava la somma di 3.000 euro in corrispondenza delle festività di Pasqua e a Natale. So anche che all’interno del Sisa c’era una parte che faceva attività di rosticceria di cui si occupava Gianfranco Ferrante, sebbene non sappia a che titolo, se fossero in società o altro». Quanto alle altre attività ricadenti nella zona industriale di Maierato, Fortuna riferisce che faceva «riferimento a tutte le altre fabbriche, queste erano di competenza dei Mancuso, sebbene non so con esattezza in che termini, se pagassero a loro o fossero in società o altro».

L’INGERENZA A PIZZO TRA MANCUSO, BONAVOTA E ANELLO

Con riferimento alla zona di Pizzo Calabro, Fortuna spiega che «i soldi li percepivamo soltanto dalle ditte che eseguivano i lavori da fare, mai dalle attività commerciali» specificando che lì «non c’erano persone deputate nello specifico al controllo del territorio e Salvatore Mazzotta non mi risulta avesse particolari prerogative in ambito criminale su quell’area e questo perché so che tutti i lavori da farsi su quell’area li gestivamo noi Bonavota, i Mancuso o il clan Anello Filadelfia».

IL RUOLO DI GIOFFRè

A tenere la maggior parte dei rapporti con le ditte «era Gregorio Gioffrè», ritenuto referente diretto dei Mancuso, che poi si sarebbe occupato di «sistemare l’estorsione anche coi Bonavota e gli Anello. C’erano anche dei gruppi che mal sopportavano la figura di un intermediario deputato a trattare con la ditta incaricata di svolgere un determinato lavoro, preferendo relazionarsi direttamente con l’impresa, come ad esempio gli Emanuele, ma noi, quanto meno con riguardo alla zona di Pizzo, operavamo sempre nel modo che ho descritto, avvalendoci il più delle volte della figura di Gioffrè». Ma come funzionava la “procedura”? Sempre in base alle dichiarazioni del pentito, «la ditta incaricata di realizzare l’opera andava a mettersi a posto con la cosca con cui aveva il rapporto, che poi si occupava a sua volta di accordarsi con le altre».

«GLI STILLITANI SOTTO I MANCUSO E GLI ANELLO»

L’ex azionista del gruppo dei Bonavota si focalizza poi sulle figure dei fratelli imprenditori pizzitani, Franco ed Emanuele Stillitani, affermando che questi «erano sotto i controllo dei clan Mancuso e Anello proprio perché l’area in cui sorgono i villaggi turistici di loro proprietà sono collocate nel territorio di loro influenza» e anche per la gestione degli appalti all’interno dei villaggi inerenti le varie forniture «erano proprio i Mancuso e gli Anello a decidere le ditte compiacenti che avrebbero poi svolto il lavoro».

Per la precisione sia il “Garden” che il “Club Med” sarebbero stati sotto l’influenza criminale dei due sodalizi mentre «il villaggio “Bravo” era sempre sotto quella di Rocco Anello e di Giuseppe Antonio Accorinti». Queste dinamiche, Fortuna, afferma di averle apprese “direttamente da Giuseppe Raguseo, genero di Michele Mancuso e “referente di Pantaleone Mancuso alias “Scarpuni”, che materialmente, tra il 2005ed il 2006, prelevava direttamente i proventi delle estorsioni presso quest’ultimo unitamente a Giovanni Rizzo, provvedendo poi a distribuire gli utili ad Anello e Accorinti.

L’ex killer dei Bonavota, tuttavia, aggiunge di non sapere i rapporti tra i il clan Mancuso e gli Stillitani in relazione alla gestione dei villaggi turistici ma precisa che «sicuramente i primi avevano il potere di gestire gli appalti delle forniture all’interno di queste strutture anche se non so quali erano i soggetti che si interfacciavano con i due imprenditori», mentre  per quanto riguarda le guardianie è a conoscenza che al “Garden” gli Anello «fecero assumere dei soggetti di Acconia e di Filadelfia mentre, per al “Club Med” era gestita dagli Accorinti di Briatico».

«I BONAVOTA NON PROCACCIARONO VOTI A STILLITANI»

Proseguendo nella sua esposizione dei fatti, l’ex azionista del clan di Sant’Onofrio, riferisce di non essere a conoscenza dei rapporti diretti tra gli Stillitani ed esponenti della criminalità organizzata ricordando però che «uno dei due fratelli prima del 2007 si era candidato alle elezioni», ma aggiungendo un particolare importante: “Per quanto ne so, i Bonavota non hanno procacciato voti a suo favore».

In un precedente verbale, Francesco Fortuna aveva riferito di aver curato personalmente la latitanza di Giuseppe De Stefano al “Garden” di Pizzo e adesso approfondisce ulteriormente la circostanza asserendo di aver conosciuto l’esponente di vertice del clan reggino «per il tramite di Tommaso Anello che mi aveva chiesto di portargli delle galline da parte sua. De Stefano, nello specifico, mi ha contattato per il tramite del fratello Giorgio, chiedendo ospitalità per lui, all’epoca latitante, ed io, dopo averne parlato con i Bonavota, l’ho fatto ospitare in primo luogo all’interno del “Garden” ed in seguito presso un’abitazione presa in affitto nei pressi della gelateria “Enrico”, alla “Marinella” di Pizzo». E sarebbe stato l’imprenditore Facciolo a trovare un alloggio all’interno del villaggio anche se «non sapeva che avremmo dovuto ospitare De Stefano».

LE DISCRASIE COL RACCONTO DI MANTELLA

Sulla vicenda De Stefano, il collaboratore replica indirettamente all’ex boss di Vibo, Andrea Mantella, col quale ha condiviso un periodo della sua attività criminale, riferendo di non essere a conoscenza del motivo per il quale quest’ultimo aveva riferito »di aver  curato lui la gestione della latitanza. Secondo me – aggiunge –  Mantella nemmeno  lo conosceva ed ha appreso tali notizie probabilmente in seguito, da Domenico Bonavota durante una comune detenzione per poi fornire una versione che lo vedeva direttamente coinvolto nella vicenda, aggiungendo particolari suggestivi ma inesistenti». Ad ogni modo, il pentito precisa di non sapere se gli Stillitani fossero a conoscenza della presenza del latitante  all’interno del loro villaggio.  

LA FIGURA DEL DEFUNTO BOSS GIUSEPPE PROSTAMO

Cambiando area della provincia vibonese, Fortuna parla della zona di Mileto raccontando di essere stato «particolarmente amico di Giuseppe Prostamo e che a presentarlo era stato Domenico Bonavota. Era molto intimo di Vincenzo Bonavota, padre di Domenico ma con lui  non abbiamo commesso alcun reato. In una circostanza, a causa di un furto di pecore, ci siamo recati da lui unitamente a Domenico e Mantella  in quanto quest’ultimo era sospettato di esserne l’autore. In tale situazione Mantella gli disse di non essere il responsabile e che evidentemente chi aveva agito aveva la stessa sua auto. Prostamo era uno dei capi criminali dell’omonima famiglia operante a San Giovanni di Mileto, ma venne in seguito scalzato ed il predominio della zona passò a Pasquale Pititto».

PROSTAMO E L’AIUTO AL CLAN BONAVOTA DURANTE LA FAIDA

Il defunto boss di Mileto, negli anni ’90, nel corso della faida tra i Bonavota e i Petrolo-Matina-Bartolotta, si sarebbe messo a disposizione dei primi fornendo  armi o «almeno così mi raccontò Domenico Bonavota. In quel periodo storico i Prostamo erano in guerra con i Galati».

Peppe Prostamo fu ammazzato il 4 giugno del 2011 a San Costantino Calabro ma già il suo potere criminale si «era affievolito, lui stesso mi disse che in un primo momento il fratello Nazzareno aveva collaborato con la giustizia e per tale motivo la sua a figura non era più la stessa. Fu ucciso  a causa della relazione con una donna dalla quale lui diceva di aver avuto anche una figlia. Ho saputo da Domenico Bonavota che l’autore materiale di questo omicidio era da identificarsi in un parente del marito della donna o della stessa donna che in quel periodo storico era l’autista di Rosario Fiarè», boss di San Gregorio. Per quel fatto Francesco Pannace è stato condannato in via definitiva a 30 anni mentre è stato assolto, anche qui con sentenza passata in giudicato, per un altro omicidio, quello di Carmelo Polito, avvenuto a marzo dello stesso anno.

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