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Francesco Fortuna, ex killer dei Bonavota, da qualche mese collaboratore di giustizia

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Il pentito Francesco Fortuna racconta dei regali che i Bonavota facevano annualmente al clan Mancuso e alle altre consorterie mafiose per mantenere buoni rapporti. La collaborazione dell’ex killer della cosca all’inizio però rischiò di saltare


VIBO VALENTIA – Ad un certo punto ha rischiato di saltare la collaborazione di Francesco Fortuna, ex azionista del clan Bonavota di Sant’Onofrio: qualche settimana dopo il suo pentimento, infatti, l’Ufficio di Procura, al termine di uno degli interrogatori dell’ex killer pentito, esortava quest’ultimo a riflettere sulla sua volontà di intraprendere questo percorso per via della carenza del dichiarato sotto il profilo della novità e rilevanza degli argomenti riferiti, nonché in considerazione delle criticità (rispetto a pregresse risultanze sui medesimi fatti) del contenuto delle sue dichiarazioni con riferimento a diversi passaggi delle vicende trattate, evidenziando che fino a quel punto non sussistevano i presupposti per il prosieguo dell’interrogatorio e per la promozione del programma di protezione.

La storia, com’è ormai noto, ha consegnato Francesco Fortuna nello schieramento dei collaboratori di giustizia soprattutto perché ha iniziato a riferire nuove circostanze e quell’invito della Dda non si è più ripetuto.

I PRIMI RAPPORTI CON LA FAMIGLIA BONAVOTA

Il pentito Fortuna racconta di aver iniziato ad avere rapporti da giovanissimo in quanto compaesano, in particolare sia con Nicola che con Domenico Bonavota, quest’ultimo suo coetaneo, riferendo che nel 1999 insieme a lui aveva  “aperto un esercizio commerciale nel settore della zootecnia effettuando una truffa, ovvero prendendo della merce senza pagare. Nel 2001 abbiamo aperto un ulteriore esercizio commerciale a nome di Filippo Arcella effettuando ulteriori truffe”. Il duo avrebbe anche avviato un “negozio di alimentari a Filadelfia per effettuare anche qui una truffa che però non andò a buon fine per colpa di Michele Bonavota, soggetto a noi vicino anche se formalmente non era inserito all’interno del gruppo, che si era presentato con un assegno chiedendoci di cambiarlo, ma quando lo avevamo portato all’incasso si era scoperto che era rubato, motivo per il quale tutto era saltato”.

IL PENTITO FORTUNA SULLE DOTI DI ‘NDRANGHETA ALL’INTERNO DEL CLAN BONAVOTA

Secondo il racconto del collaboratore di giustizia, ad assegnare le doti di ‘ndrangheta all’interno del gruppo criminale “era Domenico Cugliari. Io avevo – specifica – quella del “Padrino” da lui concessami se non ricordo male nell’anno 2008 e anche Domenico Bonavota aveva la stessa, mentre Domenico Cugliari aveva quella della “Crociata”. Ad ogni modo, in linee generali i Bonavota “non erano molto legati ai riti di affiliazione, sebbene il patriarca Vincenzo ci tenesse molto a queste cose ed anche i figli erano tutti rimpiazzati. Nella specie so che Pasquale Bonavota ha auto lo sgarro e fu lui che non volle mai andare oltre a questa dote, ritenendola l’unica che contava veramente”.

L’ESTORSIONE ALLA DITTA DI CATANIA

Proseguendo nel racconto, il pentito Fortuna riferisce dell’estorsione effettuata unitamente a “Domenico Bonavota e Domenico Cugliari nei confronti di una ditta di Catania che stava installando dei tralicci nei pressi del panificio del secondo. Se non ricordo male ricordo che era l’anno 2004 e questa ditta distribuiva proventi estorsivi a varie consorterie criminali presenti nel Vibonese. Cugliari aveva anche concesso il piazzale a questa ditta dietro la corresponsione di una quota mensile di euro 3.000 di cui 1.000 euro consegnati a me”. A concludere questa estorsione sarebbe poi stato Gregorio Gioffrè di San Gregorio, “soggetto trasversale che nel vibonese riusciva a chiudere le estorsioni per tutte le strutture di ‘ndrangheta presenti”.

FORTUNA: “IL 90% DEGLI IMPRENDITORI PAGA IL PIZZO AI BONAVOTA”

Fortuna mette poi in risalto un dato: “Il 90% degli imprenditori presenti nella zona industriale di Maierato si rivolgevano ai Mancuso di Limbadi. Mi riferisco a Callipo, quello del vetro, Sardanelli, la Spi (che noi abbiamo “toccato” in più occasioni senza tuttavia ottenere alcun vantaggio)”. Inoltre  a seguito dell’omicidio di Raffaele Cracolici, anche il “supermercato Sisa ha iniziato a corrispondere una tangente al nostro gruppo in due tranche annuali”, mentre per quanto riguarda la Sardanelli, il collaboratore ricorda che in una circostanza “il nostro gruppo l’aveva “toccata” ma poi si era presentato Agostino Papaianni che ci chiese di lasciare in pace l’attività in quanto era sotto la protezione di Luigi Mancuso”. Estorsioni che però “non si perpetravano a Sant’Onofrio” proprio per quel modus operandi di ottenere il consenso popolare.

E anche i villaggi turistici siti nella zona di Pizzo erano sotto l’influenza dei clan, in particolare “dei Mancuso e degli Anello, questo almeno fino al 2016” ma il gruppo dei Bonavota poteva comunque “chiedere qualche “cortesia” quali posti di lavoro, soggiorni per una settimana”.

FRANCESCO FORTUNA SUGLI INTERESSI ROMANI E NEL NORD ITALIA DEL CLAN BONAVOTA

Pasquale Bonavota aveva interessi economici a Roma, in particolare nella gestione di attività commerciali, osserva ancora Francesco Fortuna riferendo dei frequenti rapporti del boss con “con gli Alvaro di Sinopoli” e della sua frenesia nell’acquisizione di “attività commerciali” pur specificando di non essere al corrente delle modalità di acquisizione delle società: “Lui era un soggetto molto influente dal punto di vista criminale anche se a Sant’Onofrio veniva sporadicamente ed io non avevo tanti rapporti con lui”.  Ma non solo nella capitale. Secondo Fortuna, infatti i fratelli Pasquale, Nicola e Domenico Bonavota “avevano interessi ad investire dei capitali al Nord Italia e in qualche occasione di questi viaggi, quando sono passato da Roma a parlare con Pasquale ho incontrato anche Vincenzo Alvaro”.

I 100 KG DI DROGA

Parlando di un soggetto il cui nome è tuttora coperto da “Omissis”, il pentito Fortuna riferisce come questi, nel 2013-2014, per il “tramite di Raffaele Cugliari, abbia trattato, per conto del nostro gruppo criminale ed in particolare di Domenico Bonavota, la vendita di circa 100 kg di droga a favore di soggetti che lavoravano al porto”; vicenda che vide il coinvolgimento dello stesso pentito.

LA LATITANZA DEL BOSS DE STEFANO

Peppe De Stefano avrebbe trascorso parte della sua latitanza nel Vibonese e la circostanza resa a suo tempo da Andrea Mantella viene adesso confermata da Fortuna che si occupò personalmente della latitanza del figlio del boss dei boss Paolo De Stefano, ucciso nella sua Archi nel 1985 durante la seconda guerra di mafia, all’interno del villaggio “Garden” degli Stillitani:   “Ho curato nel 2005 la gestione della latitanza di Peppe De Stefano all’interno del villaggio “Garden” – osserva – e a  procurarmi la stanza è stato l’imprenditore Facciolo, che tra l’altro corrispondeva una somma Domenico Bonavota in occasione delle festività,  anche se non gli dissi espressamente che il soggetto che doveva occuparla era un latitante, non so se poi lui lo ha intuito. Anche Domenico Bonavota era al corrente di questa latitanza”.

Sarebbe stato Giorgio De Stefano a chiedere al collaboratore di curare la latitanza di Peppe De Stefano che “è stato registrato all’interno del villaggio con un documento falso che avevo esibito in copia anche a  Facciolo. In seguito De Stefano venne spostato in altro appartamento presente a Pizzo”, conclude sul punto Fortuna ma non prima di aggiungere che “anche Francesco Maiolo di Acquaro ha trascorso un periodo di latitanza nel 2015 a Sant’Onofrio sempre curata dai Bonavota”.

I 20 QUINTALI D’UVA REGALATI DAI BONAVOTA A PANTALEONE MANCUSO

Contrariamente a quanto consegnavano le cronache di questi anni circa la contrapposizione tra quei clan – di cui facevano parte anche i Bonavota – ostili ai Mancuso, il collaboratore Fortuna consegna un dato interessante sui rapporti intrattenuti dai vertici della cosca di Sant’Onofrio con Pantaleone Mancuso detto “Scarpuni” riferendo come  Domenico Bonavota abbia “sempre rispettato Pantaleone Mancuso tanto da regalargli 20 quintali di uva ogni anno. Tra l’altro, lo stesso Mancuso quando doveva chiudere delle estorsioni a per dei lavori nel comune di Pizzo li mandava proprio da Domenico Bonavota”.

L’AUTO DEL MATRIMONIO DI PASQUALE FORNITA DA LUIGI MANCUSO

E di quanto i rapporti tra le due famiglie fossero comunque importanti, il pentito racconta un altro aneddoto che riguarderebbe questa volta Luigi Mancuso, il capo del Crimine vibonese che  questi “ha fornito a Pasquale Bonavota l’autovettura utilizzata per il suo matrimonio”.

FORTUNA RACCONTA L’INTERESSE DEL CLAN BONAVOTA E IL BUSINESS DEI VIDEOPOKER

Un altro grosso affare gestito dai Bonavota sarebbe stato secondo Francesco Fortuna quello delle macchinette videopoker nei bar e il primo a disseminare questi apparecchi in tutto il Vibonese “è stato Pasquale Bonavota insieme a dei soggetti napoletani”. Non ci ha messo molto a capire che il business era redditizio e quando “si è reso conto del giro di affari, dopo circa 5-6 mesi ha allontanato i napoletani e si è messo a lavorare da solo”.

L’attività era così redditizia che anche i Mancuso drizzarono le orecchie iniziando a mostrare interesse per questo settore e Bonavota, che “non ha mai voluto entrare in conflitto con nessuno, preferendo scendere sempre a compromessi”, proprio allo scopo di evitare “contrasti decise di vendere tutte le macchinette a Santo Furfaro, mantenendo solo una quota del 50% degli utili derivanti da quelle istallate nei 9/10 posti più redditizi, proventi che riceveva per il tramite del fratello Nicola Bonavota”.

LE QUOTE DEL CENTRO BRICO

Che il clan Bonavota sia anche un clan imprenditoriale è testimoniato non solo dall’indole di Pasquale Bonavota, ma anche da altri episodi come quello del 2013/2014 quando il gruppo acquistò “il 20% del Centro Brico che stava aprendo in quel momento Nicola Lopreiato. Lui aveva un esercizio commerciale più piccolo e quando decise di aprire il Brico non aveva risorse economiche a sufficienza, motivo per il quale lo aiutammo io e Domenico Bonavota, dandogli parte del capitale necessario ad aprire, che prendemmo dai proventi accumulati dalle estorsioni che commettevamo sul territorio. L’accordo era che avremmo percepito una quota pari al 20% degli utili, ma Lopreiato ci spiegò che, per iniziare a guadagnare, occorreva attendere un anno e mezzo circa dall’apertura. Non so se poi questi soldi iniziarono ad arrivare, perché successivamente io sono stato arrestato e non ne ho saputo più niente”.

DAI BONAVOTA REGALI PER LE FESTIVITà AGLI ALTRI CLAN

Di quanto fosse importante per il clan di Sant’Onofrio mantenere buoni rapporti con le altre consorterie mafiose è testimoniato da un aneddoto rivelato da Fortuna su “svariati episodi che dimostrano le amicizie dei Bonavota con altre famiglie calabresi: a Pasqua e Natale, il nostro gruppo infatti preparava fino a 300/400 cestini da destinare ad esponenti delle altre consorterie. Sono cose che abbiamo sempre fatto in quanto i Bonavota ci hanno sempre tenuto a questo genere di attenzioni. Tra queste famiglie, posso indicare, ad esempio, gli Alvaro. Ricordo, al riguardo, che io, i fratelli Bonavota, Onofrio Barbieri e altri del mio gruppo ci recavamo spesso da Mico Alvaro detto “Scagliuni”, quando questo era ai domiciliari. Specifico peraltro che della sua allocazione se ne occupò Carmelo Lo Bianco alias Piccinni”.

L’AMICIZIA COI FIARè E I BAR APERTI A VIBO E ROMA

Proseguendo nel racconto, l’ex killer dei Bonavota si sofferma anche sulle modalità attraverso le quali si strinse il rapporto tra il rapporto tra il gruppo e quello dei Fiarè di San Gregorio ricordando che nello specifico venne chiesto a questi ultimi “di occuparsi del padre di Vincenzo Alvaro, da allocare una volta ottenuti i domiciliari e da quel momento, e vista anche la vicinanza tra gli Alvaro e i Bonavota – confida il pentito Fortuna – entrammo più in confidenza con i Fiarè, al punto che Pasquale Bonavota, Nicola Fiarè e Peppe Scriva aprirono un bar insieme a Vibo Valentia che però non ebbe lunga vita e dopo la sua chiusura, Pasquale si trasferì a Roma, dove apri un altro bar. Nello stesso frangente, sempre a Roma, Nicola Fiarè ne apri un altro, in società anche con gli Alvaro”.

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