L'istituto penitenziario di Vibo Valentia
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La Cassazione ha sancito la condanna per il Ministero della Giustizia a risarcire i familiari di Salvatore Giofrè, morto suicida nel 2009 nel carcere di Vibo. Una lunga battaglia legale condotta dai legali di fiducia dei congiunti del morto.
VIBO VALENTIA – Il Ministero della Giustizia dovrà pagare un maxi risarcimento ai familiari di Salvatore Giofrè, di San Gregorio d’Ippona, suicidatosi all’età di 40 anni nel carcere di Vibo Valentia, il 28 giugno del 2009, dopo averne manifestato le proprie intenzioni, appena 24 ore prima, ma senza che qualcuno dell’amministrazione penitenziaria adottasse gli opportuni accorgimenti per scongiurare quell’evento che il detenuto mise in atto impiccandosi con le lenzuola.
UNA BATTAGLIA LEGALE LUNGA 15 ANNI
La sentenza della Cassazione mette la parola fine ad una vicenda trascinatasi per 15 anni e portata avanti, per conto dei congiunti della vittima, dagli avvocati Giuseppe Di Renzo, Nicola D’Agostino e Nazzareno Rubino, i quali avevano denunciato il ministero per omessa vigilanza. Si tratta del secondo verdetto sulla vicenda visto che già nel 2018 la Suprema Corte si era pronunciata in ordine alle statuizioni civili cassando la sentenza di secondo grado con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro che quindi avrebbe dovuto nuovamente pronunciarsi nel merito. La corte d’Appello aveva confermato la responsabilità del Ministero e adesso è arrivato il sigillo degli “ermellini”.
I VARI GRADI DI GIUDIZIO FINO AL PRIMO VERDETTO DELLA CASSAZIONE
Nel 2013, in primo grado, il Tribunale di Catanzaro aveva accolto la domanda dei familiari di Giofré – personaggio ritenuto vicino al clan Fiarè-Razionale-Gasparro (che finì in carcere per violenza sessuale ai danni di un’anziana e che non resse il peso delle accuse decidendo, quindi, di farla finita) infliggendo una condanna al dicastero della Giustizia per omessa vigilanza e al risarcimento dei danni per un totale di 195mila euro in favore di Domenica Lo Muto, 179mila euro a testa nei confronti di altri due eredi di Salvatore Giofrè, più altre 163mila euro per ognuno dei tre figli del morto. Il verdetto venne però ribaltato in Appello cui aveva fatto ricorso il Ministero ritenendo che il suicidio non fosse né prevedibile né prevenibile, tanto che il nesso cautelare tra il comportamento dell’amministrazione penitenziaria e la morte di Giofrè doveva ritenersi interrotto dall’eccezionalità dell’evento.
Da qui, il ricorso, accolto, dei familiari del detenuto in Cassazione la quale aveva rilevato la mancata sottoposizione di Giofrè ad qualsiasi osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente la condizione di restrizione e ciò in quanto, al momento dell’ingresso in carcere, mancavano educatore e psicologo. Ritenuto poi «incontestabile, sul piano causale, che se Giofrè si fosse trovato in regime di detenzione comune, come peraltro chiesto dal Pm, i suoi intenti suicidi sarebbero venuti meno, o comunque si sarebbe resa molto più ardua la loro realizzazione per via della presenza di altri detenuti».
MORTO SUICIDA IN CARCERE: IL NUOVO PRONUCIAMENTO CON LA CONDANNA DEFINITIVA DEL MINISTERO
Il nuovo processo ha cristallizzato ulteriormente quel verdetto evidenziando che la “Corte d’Appello ha concluso per la sussistenza della responsabilità del Ministero sostanzialmente ritenendo che non emergessero dal materiale istruttorio acquisito elementi, diversi da quelli già valutati con efficacia vincolante nell’ordinanza cassatoria, che potessero condurre a diversa valutazione sia in ordine alla sussistenza di specifiche violazioni di legge da parte dell’Amministrazione sia in ordine alla sussistenza del nesso causale tra le omissioni imputabili all’Amministrazione e l’evento lesivo”. Per converso si definisce “del tutto priva di fondamento la tesi censoria dell’amministrazione ricorrente secondo cui quella pronuncia avrebbe in realtà lasciato aperta a nuova valutazione le circostanze già considerate e poste a base della pronuncia”.
Sulla base di quanto esposto la Cassazione ha stabilito il rigetto del ricorso presentato dal Ministero (confermando definitivamente anche i risarcimenti per i familiari del morto suicida in carcere), con la conseguente condanna anche al pagamento di 13.000 euro di spese di giudizio.
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