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Filippo Piccione, il geologo assassinato il 21 febbraio del 1993 a Vibo

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La corte d’Assise di Catanzaro ha depositato le motivazioni dell’omicidio del geologo di Vibo, Filippo Piccione, che hanno visto la condanna all’ergastolo di Salvatore Lo Bianco e a 28 anni di Rosario Lo Bianco. Il delitto avvenne il giorno di carnevale del 1993.


VIBO VALENTIA – Quello del 21 febbraio del 1993, mentre a Vibo si festeggiava il carnevale, fu l’omicidio di un innocente, di un capro espiatorio, di una persona perbene: Filippo Piccione; personaggio molto noto in città ucciso, secondo quanto stabilito dalla Corte d’Assise di Catanzaro – nella sentenza dell’11 luglio 2024 – dai cugini Salvatore e Rosario Lo Bianco, entrambi ritenuti appartenenti all’omonimo clan di ‘ndrangheta del capoluogo. Per il  primo una condanna all’ergastolo, per il secondo a 28 anni di reclusione. Il delitto avvenne in pieno centro città, a pochi passi da Piazza Municipio.

Allo scoccare del 90° giorno, la Corte presieduta dal giudice Massimo Forciniti (giudice a latere, Giovanni Strangis) ha depositato le motivazioni della sentenza di primo grado. In tutto 112 pagine nelle quali si cristallizzano le responsabilità dei due imputati difesi dagli avvocati Enzo Gennaro e Giuseppe Orecchio (Salvatore) e Patrizio Cuppari (Rosario). Per la parte civile, nelle persone dei familiari della vittima, l’avvocato Francesco Gambardella insieme al collega Danilo Iannello.

CONFERMATO L’IMPIANTO ACCUSATORIO SULL’OMICIDIO PICCIONE

Il processo ha confermato l’impianto accusatorio messo in piedi dalla Dda di Catanzaro innanzitutto in ordine al gruppo di fuoco che uccise il noto geologo vibonese che sarebbe stato composto da Salvatore Lo Bianco in qualità di esecutore materiale, e Rosario Lo Bianco (vedetta), oltre a da Nicola Lo Bianco (di supporto) e Antonio Grillo, alias Totò Mazzeo (vedetta), questi ultimi due deceduti. Importante anche la causale del delitto che scagiona la vittima quale responsabile, secondo il clan Lo Bianco, dell’uccisione di Leoluca Lo Bianco avvenuto l’1 febbraio 1992, in contrada “Nasari”, a Vibo. I killer utilizzarono delle maschere di carnevale per coprirsi il volto.

LE DIRIMENTI DICHIARAZIONI DEI PENTITI

Dirimenti quindi le dichiarazioni sull’omicidio di Piccione dei collaboratori di Giustizia Andrea Mantella, ex boss scissionista di Vibo, e Bartolomeo Arena, oltre che di Grillo tanto da far mettere nero su bianco come le emergenze dell’istruttoria dibattimentale abbiano “evidenziato convergenti dichiarazioni testimoniali così come precisi riscontri sono giunti delle attività di indagine evidenziate nel corso dell’istruttoria”. I tre dichiaranti, Andrea Mantella, Antonio Grillo, e Bartolomeo Arena, “lungi dal rendere propalazioni l’una fotocopia dell’altra” hanno fornito secondo la Corte un dichiarato coerente a quello che è il rispettivo vissuto sia all’interno della consorteria criminale di appartenenza sia alle modalità di acquisizione del dato di conoscenza dei fatti.

Tutti e tre rivestivano diversa posizione e diverso ruolo tale da avere un diverso accesso a notizie di tale portata. Sicuramente Grillo, detto Totò Mazzeo, in quanto facente parte del gruppo di fuoco “ha fornito notizie acquisite di prima mano sulle modalità esecutive e quindi sulla composizione del gruppo stesso. Peraltro l’aver partecipato – per come dallo stesso riferito – all’azione su input di Carmelo Lo Bianco detto “Sicarro” è assolutamente coerente con il suo approccio al contesto criminale vibonese”.

IL GRUPPO DI FUOCO CHE COMMISE L’OMICIDIO DI FILIPPO PICCIONE

Il dichiarato di Mantella, proviene da soggetto con ruolo più vicino al vertice sicché “è coerente come la sua conoscenza dell’episodio sia di prima mano riguardo la partecipazione alla fase preliminare, addirittura destinatario della proposta di procedere all’azione omicidiaria che declinava”. Inoltre, ulteriore dato di coerenza emergente dal dichiarato di Grillo e Mantella, è che si trattò di una vendetta fortemente voluta Carmelo  Lo Bianco, detto “Sicarro”, fratello di Antonino padre, della vittima, tanto da decidere – una volta che si stabilì di individuare il fratello della vittima, Salvatore Lo Bianco detto U Gnicco, quale esecutore materiale – di  comporre il gruppo di fuoco con “le persone a lui più vicine e quindi su cui riporre massima fiducia: Nicola Lo Bianco (il figlio), Antonio Grillo detto Totò Mazzeo (il “figlioccio”), e Rosario Lo Bianco detto “Pompa” (il genero)”.

Allo stesso modo, si ritengono coerenti col contesto criminale le dichiarazioni di Bartolomeo Arena, con posizione più da azionista nella gemella e più giovane consorteria Pardea-Camillò di Vibo: “Presente nel contesto criminale per tradizioni di famiglia, il padre morì in un agguato in un’ottica di guerra tra consorterie e quindi era ben voluto da Mazzeo e Nicola Lo Bianco. Allo stesso modo è assolutamente credibile che Salvatore Lo Bianco in un momento di intimità, sentendosi umanamente vicino all’Arena per la triste esperienza che li accomunava (uccisione in agguato di uno stretto congiunto) abbia confidato a chi poteva capirlo di essersi fatto giustizia da sé”, evidenziano i giudici.”

“NESSUN DUBBIO CHE A SPARARE SIA STATO SALVATORE LO BIANCO”

Circa i ruoli, secondo quanto emerso in dibattimento, “non v’è dubbio che ci sia coincidenza sul fatto che a sparare sia stato Salvatore Lo Bianco, poiché oltre a Grillo e Mantella, lo sostiene anche Arena, ma i primi due indicano ruoli e presenza sul posto di Grillo, di Rosario e Nicola Lo Bianco (Grillo, l’unico presente, addirittura fornisce un dichiarato più dettagliato), mentre Mantella parla solo di Nicola, che era sceso dalla macchina e si era posizionato nei pressi; il Grillo invece sostiene che era sceso dalla vettura anche Rosario Lo Bianco che aveva accompagnato Salvatore sino all’angolo della strada”.

PICCIONE INNOCENTE SULL’OMICIDIO DI LEOLUCA LO BIANCO

Sempre i tre dichiaranti hanno anche indicato la causale dell’omicidio di Filippo Piccione. La ricostruzione con maggiori dettagli è quella di Mantella secondo cui, con la conferma degli accertamenti della polizia scientifica, emerge “con evidente chiarezza che gli spari che uccisero Leoluca Lo Bianco provenivano dal fondo di Piccione, sito a Vibo, e come, lungi dal ritenere il geologo quale l’esecutore materiale, la sua sia “una responsabilità di posizione, cioè l’essere il titolare del fondo e colui che denunciava atti emulatori sulle sue proprietà, ultima delle quali il 21 gennaio 1992, quindi 1o giorni prima dell’omicidio Lo Bianco”.

L’UCCISIONE DI LO BIANCO E LA FIGURA DEL GUARDIANO DI PANANNACONI

Sempre l’ex boss scissionista di Vibo, Mantella,  ha introdotto, poi, la circostanza che nelle attività preparatorie all’azione di fuoco si fosse presa in considerazione l’ipotesi di vendicarsi colpendo il guardiano del fondo di Piccione, un soggetto di Pannaconi; proposito di omicidio che venne accantonato dopo il confronto avuto, a dire del collaboratore di giustizia, tra un tale soggetto di Pannaconi e Domenico Lo Bianco che viveva da quelle parti, circostanza in cui il primo giustificava il suo operato. Meno dettagliatamente, Grillo ha narrato della circostanza che si fosse preso in considerazione di agire nei confronti di tale guardiano di Pannaconi. Anche questi aveva sostenuto il sospetto che fosse stato proprio li guardiano a sparare ma che, poi, a prescindere dal fatto che fosse materialmente responsabile, si era deciso di agire nei confronti di Piccione.

NESSUNA VERIFICA SUL FUCILE DEL GUARDIANO

La Corte d’Assise spiega sul punto che le “convergenti dichiarazioni di  Mantella e Grillo, sulla causale, hanno consentito di individuare Alfredo Calafati nel soggetto indicato quale guardiano, essendo l’unico tra i dipendenti della vittima a vivere a Pannaconi. D’altra parte, dalle prime indagini sull’omicidio di Leoluca Lo Bianco, era emersa la sussistenza di elementi a carico di Calafati, sentito dagli inquirenti che gli sequestrarono il fucile” ma senza che fossero effettuati ulteriori approfondimenti sull’arma, e sulla compatibilità tra questa e il materiale balistico. Di contro, il dichiarato di Calafati, preoccupato allorquando rese dichiarazioni nel 2019 a non riferire più di quanto già detto a suo tempo, è risultato lacunoso se non contradditorio”.

Addirittura si rileva come dal confronto con il dichiarato degli stretti congiunti di Piccione sia emerso aver addirittura “negato l’evidenza circa il fatto che nel fondo di Piccione ci fossero un fucile, un cane, vi fossero danneggiamenti portati più volte alla proprietà, le pecore dei vicini che invadevano la proprietà della vittima e di aver usato più volte un fucile per sparare gli uccelli che mangiavano la frutta ancora sugli alberi, non potendo negare che solo in una circostanza si era adoperato in tal senso”.

LE POSSIBILI IPOTESI DELL’OMICIDIO DI LEOLUCA LO BIANCO

Di contro, la versione di Filippo Piccione, sentito all’epoca, era stata “coerente e trasparente” sulla sua assenza in contrada “Nasari”, a Vibo, la sera dell’omicidio a Lo Bianco le cui ipotesi “possono essere varie, in assenza degli accertamenti mai effettuati, e vanno dall’incidente, in quanto si riteneva potesse essere l’ennesimo tentativo di danneggiamento al fondo, equivocando la sosta della moto ape e, quindi in base a tale ipotesi, si è sparato dal fondo per mettere in fuga i presenti, all’agguato volontario e premeditato per le più disparate ragioni ascrivibili al contesto criminale, commesso da un soggetto sconosciuto introdottosi nel terreno agricolo, così come consente di supporre il dichiarato di Gianluca Piccione, figlio della vittima, laddove ha sostenuto di aver visto la mattina dopo l’omicidio tavole apposte sulla recinzione del fondo di contrada Nasari come per consentire una via di fuga”.

Piccione incolpevole. Sta di fatto che “l’incolpevole Piccione”, che comunque aveva qualche conflitto di interesse con la famiglia Lo Bianco, è stato “ritenuto responsabile, una sorta di capro espiatorio. Peraltro, dal dichiarato dei collaboratori emerge un certo astio dei Lo Bianco nei confronti del geologo, confermato dal brindisi narrato da Domenico Piccione allorquando, dopo il funerale, era in atto il corteo con il feretro”.

LE CONCLUSIONI DEI GIUDICI SUI DUE IMPUTATI PER L’OMICIDIO PICCIONE

Andando quindi alle conclusioni, la Corte per Salvatore Lo Bianco rileva una “convergenza di tre chiamate in reità o correità, le cui fonti di conoscenza, quando non frutto di scienza diretta sono puntualmente ricostruite, che si riscontrano vicendevolmente, nonché l’avallo di elementi oggettivi, come le risultanze di perizie balistiche ed esame autoptico oltre che quanto oggetto di sequestro, ma anche il dichiarato delle persone informate sui fatti, che da una parte confermano la dinamica dell’azione omicidiaria ed alcuni particolari, quali il fatto che il killer indossava una maschera di carnevale, e dall’altra tutta una serie di rapporti e circostanze utili a ricostruire la causale; infine alcuni riscontri indiretti provenienti da captazioni”.

Per Rosario Lo Bianco, poi, milita la chiamata in reità di Mantella riscontrata “da una serie di dati oggettivi dotati di forte valenza se considerati unitariamente, quali la ricostruzione della dinamica dell’azione, le modalità di tempi e luoghi, così come descritti dalle persone presenti sulla scena, e dalle quelle informate sui fatti che hanno ricostruito il rapporto tra Piccione e i Lo Bianco, nonché dalla causale indicata collegata a motivi di conflitti tra il primo e i secondi e dalla circostanza che l’azione omicidiaria è stata fortemente voluta da Carmelo Lo Bianco che ha individuato il gruppo di fuoco che doveva supportare l’esecutore materiale (Salvatore Lo Bianco, fratello di Leoluca) costituito dalle persone a lui più vicini, il figlio, il «figlioccio” ed il genero, Rosario Lo Bianco detto Pompa”.

A tali elementi si aggiunge un riscontro individualizzante di non poco momento, ossia la chiamata in correità dì Antonio Grillo, il quale ha partecipato all’azione “facendo parte così come Rosario Lo Bianco del gruppo di fuoco, tale da fornire elemento di conferma del quadro probatorio emerso e da costituire una delle due componenti indiziarie autonome e distinte, oltre che convergenti”.

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