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Il pentito Bartolomeo Arena parla dell’estorsione alla Ased da parte delle nuove leve del crimine di Vibo e della vicenda della pistola puntata alla tempia di un dipendente della ditta


VIBO VALENTIA – L’estorsione e le intimidazioni alla Ased, il “buon ordine” i rapporti con Francesco Antonio Pardea e gli altri sodali del gruppo; c’è un po’ di tutto nelle parole del pentito Bartolomeo Arena al processo che vede fatti analoghi anche nei confronti di ditte impegnate nella realizzazione del nuovo ospedale e per il quale il pentito figura anche come imputato unitamente alle cosiddette nuove leve del crimine vibonese.
Davanti al Tribunale collegiale di Vibo, (presidente Barbara Borrelli, a Alessio Maccarone e Laerte Conti), il pentito, incalzato dalle domande del pm Eugenia Belmonte, esordisce però col far riferimento alla sua collaborazione avviata il 18 ottobre del 2019 perché intanto “non volevo partecipare all’omicidio di Rosario Pugliese, che stava per essere organizzato dal mio gruppo criminale, e, in più, volevo allontanare mio figlio da quei contesti. Inoltre, per quanto riguarda il nostro gruppo, c’erano pure un po’ di dissidi, non c’erano più quella fiducia e quella fratellanza presenti all’inizio”. Successivamente si focalizza brevemente sulla sua carriera criminale iniziata come componente “della ’ndrina dei Pardea.

LA NASCITA DEL “BUON ORDINE” E LA SUCCESSIVA SCISSIONE

La struttura, inizialmente, era composta da Domenico Camillò (cl. ’41), capo società, e Raffaele Franzè, detto lo Svizzero, Contabile, fino a quando hanno passato la mano” e parlando del suo gruppo aggiunge: “A quel punto, ci siamo uniti con i Lo Bianco–Barba, formando un unico corpo di società, e lì il capo società era Vincenzo Barba, detto il “musichiere”, e il contabile Antonio Macrì, che sarebbe sempre uno dei Pardea, “U ranisi”. E lì nacque il “Buon ordine”.

Tutto cambiò quando uscirono dal carcere Francesco Antonio Pardea e Domenico Macrì, mentre Salvatore Morelli lo aveva fatto prima rispetto a loro e questo ci portò a formare un gruppo a parte, facendo dei rimpiazzi autonomamente e non dando più conto ai Lo Bianco-Barba”. E Arena in questi due gruppi ci entrò dal 2012 fino al 2019 pur precisando “che nella ’ndrangheta ci sono stato, anche quando non ero affiliato, sin da quando ero ragazzo. Successivamente lo furono Michele Manco, il fratello di Francesco Antonio Pardea, altri Pardea e pure, Franzè, Camillò, tutti i parenti nostri. Eravamo tutti imparentati tra di noi”.

I PROIETTILI AL GIOIELLIERE PATANIA

Arena racconta inoltre che nonostante fosse nel “buon ordine”, iniziò comunque ad avvicinarsi a Pardea dopo aver avuto un piccolo diverbio “per il fatto di certi proiettili che aveva fatto collocare da Camillò presso la casa del gioielliere Raffaele Patania e su questa cosa avevamo avuto un momento di scontro. Ero rimasto male per quell’episodio, perché era stato più che altro istigato da Salvatore Morelli in quanto era da tanto che voleva toccare a questo gioielliere. Io tentavo di temporeggiare, perché i figli di questo commerciante erano miei cugini in quanto figli di una mia cugina, divorziata dal gioielliere. Quindi, gli hanno messo questi proiettili senza dirci niente. Mi ricordo, infatti, che Domenico Camillò, con cui all’epoca ero legatissimo, non voleva nemmeno andare a metterle queste cartucce, proprio perché sapeva che mi interessava a me”.

Superata quella fase, però, Arena si avvicinò sempre più a Pardea con cui successivamente “ci staccammo del tutto insieme a Michele Manco e Giuseppe Camillò, quando è successa la sparatoria in piazza Municipio”.

IL PENTITO ARENA: L’ESTORSIONE ALLA ASED E LA PISTOLA ALLA TEMPIA DEL DIPENDENTE

In questo procedimento, Bartolomeo Arena risponde di fatti estorsivi commessi ai danni della ditta Ased Srl nell’aprile del 2016, che si occupava della raccolta dei rifiuti nel territorio comunale di Vibo. Il pentito fa salire le condotte illecite nel periodo in cui “Morelli e Pardea già operavano autonomamente. Sono loro i mandanti mentre gli esecutori materiali sono i miei cugini Michele Pugliese Carchedi e Domenico Camillò (cl. ’91). Bloccarono uno di questi furgoni dei rifiuti, poi incendiato, e puntarono una pistola alla testa del conducente”. Il teste-imputato riferisce di aver appreso della circostanza solo “successivamente” e di non essersi interessato alla stessa “perché ancora all’epoca io, Antonio Macrì e anche lo stesso padre di Pardea ancora eravamo legati a quel “buon ordine”. Me lo dissero coloro che avevano eseguito tutto: Camillò, Pugliese Carchedi e Francesco Antonio Pardea”.

I PROVENTI DELL’ESTORSIONE AL PENTITO ARENA E AL CLAN DI VIBO

Il pm Belmonte a questo punto domanda al pentito se è a conoscenza se l’azienda di Melito di Porto Salvo, ebbe a corrispondere del denaro e Arena replica in questi termini: “Le posso dire che prima che cambiasse la gestione e che la prendesse in mano Gregorio Farfaglia, con la Dusty, mi ricordo che mi arrivarono 400 euro che me li mandò Morelli tramite Pardea ed erano dei soldi che gli erano arrivati proprio dalla raccolta dei rifiuti. Mi ricordo che quel giorno Pardea diede 250 euro pure a Domenico Camillò e altri 250 a Pugliese Carchedi perché avevano fatto il lavoro”.

Il collaboratore precisa di aver preso questi soldi ma non per quell’episodio ma per aver chiuso col sodale una estorsione ai danni di un imprenditore di calcio “che mi diede 10mila euro come contributo per la consorteria e mi ricordo che assieme a Pardea abbiamo dato una parte pure a Morelli. Quindi, quando Salvatore Morelli ha preso i soldi della raccolta dei rifiuti mi ha mandato questo pensiero”.

L’AVVICINAMENTO ALLA “DUSTY”

Arena ha poi parlato della “Dusty”, azienda che subentrò, alla Ased riferendo sulla figura di Gregorio Farfaglia che “appartiene a una famiglia di imprenditori che già, cioè negli anni ottanta-novanta aveva una impresa, non mi ricordo se movimento terra, qualcosa del genere” e anche del fratello Emilio (entrambi non sono imputati, ndr) che si sarebbe incontrato in un bar con “Pardea per prendere l’appuntamento tra questi e il congiunto che poi avvenne nel 2018. In quell’occasione Farfaglia chiese a Pardea di concedergli li tempo di lavorare, che comunque il pensiero lui lo avrebbe fatto, e così fu”.

Ma prima che il pentito iniziasse la sua collaborazione con la giustizia “i soldi Pardea non li aveva ancora presi”; sarebbe stato quindi “Filippo Fiarè ad impegnarsi a fornirci la somma di denaro, che non saprei quantificare, e furono Pardea e Morelli a riferirmelo i quali mi precisarono che erano proprio i Fiarè ad avere preso quell’appalto già all’epoca della precedente amministrazione. E Filippo, aveva proprio questo ruolo per quanto riguarda la raccolta dei rifiuti; era lui a sistemare le ipotetiche estorsioni. Quindi, qualora fosse venuto da fuori qualcuno per questa raccolta differenziata, il punto di riferimento era sempre lui”.
E su Gregorio “Rino” Farfaglia Arena riferisce che “era il responsabile della ditta che era come se fosse la sua. Era lui era lui l’intestatario, per quello che so io per come riferitomi da Morelli e Pardea”.

IL PENTITO: “IMPRENDITORI E COMMERCIANTI DI VIBO SOTTO ESTORSIONE”

La tipologia delle vittime di estorsione ad opera del gruppo criminale di Vibo era variegato secondo il pentito Arena: “Imprenditori, commercianti erano i destinatari” racconta il pentito e le modalità “potevano essere dal lasciare le cartucce, magari, davanti al negozio oppure mandare una lettera minatoria, con un proiettile o ancora, quando non si raggiungeva ancora lo scopo” passare alle maniere forti e “puntare direttamente una pistola alla tempia dell’imprenditore, del commerciante. Si utilizzava una moto, celando il volto con il casco, oppure altre volte si andava direttamente a volto scoperto in caso di assenza di telecamere, dicendo alle vittime di mettersi a posto con gli amici di Vibo”.

Queste, dunque, sempre a parere del pentito Arena le modalità per indurre i destinatari dell’estorsione a cedere al clan di Vibo. Le cartucce, ad esempio, venivano lasciate da “Domenico Camillò, che, a sua volta delegava sempre un ragazzo, Peppe Suriano e poi, per le lettere minatorie, le scrivevamo io e Michele Manco. Alcune volte venivano redatte da me al normografo ma si impiegava tanto e, quindi, Manco una volta mi disse che era più facile scriverle al computer all’Eurospin, visto che lavorava lì, e quindi per le successive si è occupato lui. Poi, mettevamo un bossolo calibro 6.35 nella busta e, magari, le davamo a Michele Dominello, a Michele Pugliese Carchedi. In due circostanze diverse, una ai danni di una ditta edile e un’altra a quella di Mirabello, imprenditore che vende bevande. In un’ulteriore circostanza i proiettili li abbiamo gettati io e Manco direttamente dentro una casa”.

IL CLAN DI VIBO CAMBIA METODO DI ESTORSIONE: SI PASSA AI DANNEGGIAMENTI

Ma tale metodo non rendeva e pertanto venne accantonato: “Morelli credeva che fosse inefficace e quindi si è proseguito con un modo diverso: andavano direttamente con la moto e puntavano all’imprenditore la pistola alla testa. In altri casi ci sono stati danneggiamenti, tipo macchine bruciate però io, sinceramente, non ero d’accordo con queste cose, anzi in certe situazioni per alcuni soggetti, pure di spessore, che adesso non credo possa nominare, ho cercato di mediare, perché loro volevano fare un avvertimento pesante e io, invece, cercavo di mitigare, per fare una cosa diversa, magari andare a parlarci di persona prima perché, secondo me, erano soggetti che ci potevano dare fastidio. Tuttavia, Morelli e Macrì erano quelli più propensi all’azione materiale che desse più risultato”.

LA FIGURA DI MICHELE MANCO

Soffermandosi, poi, sulla figura di Michele Manco, il teste ricorda che questi “fu battezzato prima “picciotto”, poi “camorrista” e di aver avuto a che fare con me sia a livello associativo, sia per quanto riguarda armi, droga, danneggiamenti. Abbiamo anche dato supporto a tutto il nostro gruppo a seguito di una discussione tra Domenico e Michele Camillò con i nipoti di Peppe Accorinti: all’epoca furono esplosi due colpi di fucile verso l’abitazione di quello dei Marmi, Crudo. Io e Michele Manco accompagnammo Michele Camillò, il collaboratore, con l’auto nel punto dove poi è salito con Luigi Federici e commettere il danneggiamento. E sempre io e Manco portammo il fucile a casa di mio nonno a lavoro concluso”.

Arena ricorda un’altra circostanza, quando sempre con l’imputato si recò “al porto turistico di Tropea per gettare una molotov, perché all’epoca dovevamo fare un favore a Peppe Prossomariti, il nipote di Pasquale Quaranta e perché ce l’aveva chiesto Morelli”.

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