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Il pentito Pasquale Alessandro Megna racconta nell’udienza del processo “Maestrale” una serie di aneddoti riguardanti il clan Mancuso, la gestione dei villaggi e dei resort («A Nicotera nessuno compra qualcosa se non vuole Luigi Mancuso») e l’omicidio di Maria Chindamo


VIBO VALENTIA – È stato oggi, al processo “Maestrale-Carthago” contro i clan del Vibonese (Mancuso, Accorinti, Galati, Prostamo, Pititto ed altri), il giorno del pentito Pasquale Alessandro Megna, ex componente della cosca di Limbadi che, in collegamento da un sito riservato, ha risposto in aula alle domande del pm antimafia Anna Maria Frustaci affrontando numerosi argomenti, dalle attività di gestione da parte dei Mancuso di villaggi e strutture turistiche all’omicidio di Maria Chindamo. Primo dei quali  è stato quello sulla sua decisione di avviare il suo percorso di collaborazione con la Dda di Catanzaro.

Una scelta nata “il 18 febbraio 2023 e dettata dalla volontà di cambiare vita per me e i miei figli, portarli via da Nicotera, nonché per la paura di ritorsioni nei nostri confronti, visto che in passato ho subito numerosi attentati. In più, non mi piaceva il comportamento assunto dagli ‘ndranghetisti di “là sotto” (espressione che si riferisce alle zone di Nicotera e Limbadi, ndr) perché si erano iniziate a toccare donne e questo per me era inconcepibile”. In quel momento Megna era detenuto in carcere per l’omicidio di Giuseppe Muzzopappa, commesso la sera del 26 novembre 2022, a Nicotera Marina, per il quale aveva trascorso circa un mese di latitanza per venire poi arrestato la notte del 9 gennaio a Vibo Valentia.

IL PENTITO MEGNA, I RAMI DEL CLAN MANCUSO E LA PAURA DI RITORSIONI

Un soggetto con il quale il pentito era ai ferri corti da anni perché schierato con la fazione che addossava ai Megna la responsabilità per l’uccisione di Domenico Campisi, avvenuta a Preitoni di Nicotera nel 2011. E Muzzopappa, la cui eliminazione “ha fatto comodo a molte persone”, era infatti il nipote di Campisi e quindi cugino del figlio Antonio, che bramava la vendetta contro i Megna e quel ramo dei Mancuso (“Scarpuni” e “L’ingegnere”) che secondo lui aveva ordinato l’omicidio del padre, nipote di Salvatore e Roberto Cuturello, legati ad un altro ramo dei Mancuso, quello che fa capo a Peppe, alias ’Mbrogghjia”.

E da qui la paura delle ritorsioni al momento della sua collaborazione perché, aggiunge, si “conosceva la mia vicinanza con “Pantaleone Mancuso, detto “l’ingegnere” e  con Pantaleone Mancuso “Scarpuni”, che era mio zio, per l’omicidio di Campisi”, menzionando poi il tentato omicidio di Dominic Signoretta, killer de “l’Ingegnere”, al quale “Campisi attribuiva l’uccisione del padre. Io – specifica in aula – appartengo al ramo di “Scarpuni “perché era sposato con mia zia, Santa (Tita) Buccafusca, mia moglie è la nipote di Francesco Mancuso alias “Tabacco”, tuttavia facevo parte del gruppo de “l’Ingegnere” perché all’epoca mio fratello era fidanzato con sua figlia, e così anche mio padre fino a quando non si avvicinò a Luigi Mancuso”.

I rapporti con il ramo de “l’Ingegnere” però iniziarono a raffreddarsi nel momento in cui avvenne il tentato omicidio di Romana Mancuso e del figlio di Giovanni Rizzo, nel maggio 2008, ad opera del primo e del figlio Giuseppe Salvatore (entrambi a processo), che “tra l’altro sono loro parenti, rispettivamente zia e nipote di “Luni”.

MARCELLO PESCE, LA LATITANZA, L’OSPITALITÀ DEI MEGNA GLI SPOSTAMENTI PER NICOTERA E LA CATTURA

Altro argomento affrontato dal pentito Megna nel corso del processo “Maestrale” è stato quello della latitanza dell’allora reggente dell’omonimo clan di Rosarno nel territorio di Nicotera per volere di Luigi Mancuso e nello specifico nella casa di campagna della famiglia Megna, in contrada Timpa, a Nicotera: “L’ha portato Pasquale Gallone. Io in quel momento non c’ero, era presente mio padre al quale disse Gallone che sarebbe dovuto rimanere per qualche tempo e quindi lo abbiamo sistemato. Quando lo seppi chiesi spiegazioni e mio papà rispose che lo aveva chiesto lo zio Luigi in quanto c’era movimento dove stava prima”. E lì vi restò per circa due mesi e mezzo prima di essere nuovamente trasferito e finire, pochi giorni dopo, arrestato.

Per quasi tre mesi, dunque, il boss è stato uccel di bosco nel Nicoterese ma quella dei Megna era stata solo la destinazione finale. In precedenza  infatti Pesce che “diceva di stimare soltanto Luigi mentre tutti gli altri erano un po’ personaggi da talk show”, era stato infatti  “nella casa di Giovanni Mirabile sul lungomare, ma non era tranquillo; poi, da lì, in quella di Antonio Gallone, padre di Pino, ma dopo un po’ è voluto scappare perché lì aveva la residenza Domenico Mancuso detto “Niji”, figlio di Peppe Mancuso, e quindi non voleva rischiare che avvenisse qualche perquisizione”.

Il collaboratore ha anche riferito di un aneddoto curioso: “Una volta ci siamo preoccupati perché c’era un elicottero su Nicotera e pensavamo che fosse delle forze dell’ordine ma poi abbiamo capito che si trattava di quello utilizzato per il matrimonio di Nino Gallone che fece tutto quello scalpore mediatico e quindi ci tranquillizzammo”.

LA DECISIONE DI TRASFERIRE IL BOSS E LA CATTURA

Delle necessità del boss di Rosarno si occupavano Megna e il cugino “Angelo Carrieri che, dopo l’omicidio di Muzzopappa, mi fece allontanare dal bar di Francesco Congiusti, in cui avvenne il delitto, mi accompagnò in auto a Monteporo per nascondermi”. La decisione di trasferire Marcello Pesce  nacque dal fatto che una mattina “Giuseppe D’Angelo, detto u sicilianu, venne a dirmi che sulla montagna che affaccia su contrada Timpa avevano installato due telecamere. Mi aveva comunque tranquillizzato dicendomi che la sera prima che il fratello di Leo Perfidio, che frequentava quella zona, le aveva viste solo pochissimi giorni prima e che quindi in precedenza non c’erano. Alla fine so che le hanno fatte togliere, non so se Luigi o chi per lui,  ma io ho fatto il casino perché ritenevo fosse meglio lasciarle per non destare sospetti”.

Quando si decise il trasferimento di Pesce, lui salì sull’auto del pentito che raggiunse un luogo in cui c’erano anche altre 6-7 vetture, tra cui “quella del dott. Salvatore Rizzo, ex sindaco di Nicotera. Lui salì su quella di Pippo Scordino, una Fiat Panda e si diressero verso San Ferdinando.  Dopo un paio di giorni circa dal trasferimento, mio padre portò a Marcello le sue valigie che aveva lasciato a casa nostra, piene di indumenti e libri”. Quindi pochissimo tempo dopo il boss venne catturato e le forze dell’ordine arrivarono fino alla campagna dei Megna: “Ci hanno sequestrato la campagna e Pasquale Gallone, che non ci poteva vedere, iniziò a dire in giro che avevano messo un localizzatore nelle valigie e che quindi era stato per quello che pesce era stato catturato”.

IL PENTITO SULLA GESTIONE DEI VILLAGGI: IL “SAYONARA” NELLE MANI DEI MANCUSO

Quella dei Megna è una mente imprenditoriale e in questo è molto affine a quella di Luigi Mancuso, non per nulla la questione dei villaggi Sayonara di Nicotera e Cliffs Hotel di Joppolo è eloquente. «Mio padre Natale Assunto, per scontarsi i soldi che il “Sayonara” doveva dargli per la vendita del pesce, si è preso in gestione il Cliffs Hotel. Il Sayonara era dei fratelli Ranieli, Tonuccio e Mimmo, che lo avevano in società col dottore Francesco Polito ai quali in cambio era stata promessa una villetta se si occupavano della gestione ma dietro ovviamente c’erano i Mancuso».

«La struttura, poi, venne messa all’asta ma a Nicotera nessuno poteva comprare nulla senza che ci fosse in mezzo qualcuno dei Mancuso, e all’epoca c’era Luigi che per la gestione si interessò tramite mio padre. Alla fine la fecero comprare per 1,3 milioni di euro da Giuseppe Fonti e dai siciliani Francesco Rapisarda e Tino Conti: loro dovevano portare i soldi della mazzetta, circa 10mila euro alla volta, a mio padre che poi li doveva consegnare a Luigi. In più c’erano i soldi che si dovevano recuperare da soggetti di una lista, sia quelli dei fornitori che quelli dati a strozzo.  Ad esempio per la vendita del pesce c’erano 100mila euro senza interessi».

I MANCUSO E I VILLAGGI: LA GESTIONE DEL CLIFFS E L’INDAGINE DELLA GUARDIA DI FINANZA

In relazione agli interessi dei Mancuso sui villaggi, Megna ricorda l’anno in cui la sua famiglia si prese la struttura a Joppolo: il 2017. A quel tempo era da rimettere in sesto e per questo bisognava spendere molti soldi: “C’era molto da fare – riferisce in aula – e ricordo che ci sono voluti 100mila euro per riattivarlo. Abbiamo scelto di prenderlo dai Ranieli, su placet di Luigi Mancuso, per recuperare quei soldi che loro ci dovevano per le forniture di pesce al “Sayonara” mai pagate. A gestirlo c’erano sulla carta un certo Fabio ed Elena Barillà e io ero h24 lì insieme a mia moglie”.  

Quindi riferisce un altro aneddoto: “Nell’inverno del 2019 siamo venuti a conoscenza di un’indagine della Guardia di finanza e avevamo capito quella carta che ci aveva portato Domenico Cupitò, alias “Pignuni”, si riferiva all’hotel anche perché c’erano il mio nome, quello di mio padre, di Fabio Petullà, Elena Barillà ed altri. Cupitò però non ci disse dove e da chi aveva avuto quel foglio che poi gettai nel camino acceso. Noi comunque ci sentivamo sempre sotto l’occhio della magistratura tant’è che nella smart di mio padre ho trovato una microspia con una Sim e una memory card che però non riuscii ad aprire”.

Per quanto concerne altre attività diverse dai villaggi sotto l’influenza del ramo di “Scarpuni” del clan Mancuso, il pentito ha menzionato il lido “Delfino”, a Nicotera Marina “intestato alla mamma di Isidoro Buccafusca, aperto da quest’ultimo insieme a Francesco Mancuso, alias “Bandera”, che era anche in mezzo alle onoranze funebri dell’ex suocero Agostino Rombolà”.

MEGNA, IL CLAN MANCUSO, SALVATORE ASCONE E L’OMICIDIO CHINDAMO

E di questa lista era a conoscenza, secondo il pentito, anche a Salvatore Ascone, esponente dei Mancuso, colui il quale discutendo, con Assunto Megna, che poi lo riferì al figlio, sulla necessità di recuperare dei crediti, e all’invito del secondo di lasciar perdere, aveva commentato che “per quattro soldi ho dovuto mettermela sulle spalle a quella là per andarla a sotterrare, riferendosi a Maria Chindamo”, ha detto nell’aula di “Maestrale”, l’imprenditrice vittima di lupara bianca nel 2016 (vicenda che si sta trattando davanti la Corte d’Assise). Una frase “per la quale mio padre mostrò indignazione”, ricorda ancora il pentito.

Il pentito Megna sempre nel corso dell’udienza odierna di “Maestrale” riferisce anche di un altro aneddoto: “Leo Lentini, nipote di Luigi Mancuso, una volta mi raccontò che “Ascone mandò dei soldi proprio a Luigi il quale, però, glieli tornò indietro sostenendo che questo qui è pieno di microspie e ci mancava che si mettesse a predicare e andava a finire che nella vicenda della Chindamo ci saremmo entrati anche noi”. Un delitto, quella dell’imprenditrice del quale si “è commentato tantissimo in città e non solo con Lentini ma anche con altre persone le quali dicevano che era stato uno scandalo uccidere una donna”.

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