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Emanuele Mancuso

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Il pentito Emanuele Mancuso al processo “Maestrale” ha rivelato le faide interne alla famiglia e la latitanza di Luni “L’ingegnere”


VIBO VALENTIA – Secondo giorno di escussione del pentito Emanuele Mancuso al processo “Maestrale”, in aula Bunker a Lamezia, condotta dal pm della Dda, Antonio De Bernardo che ha continuato a sottoporre al teste l’album fotografico.

LE FAIDE INTERNE NELLA FAMIGLIA MANCUSO

In particolare, il collaboratore si è soffermato sulle contrapposizioni all’interno del clan Mancuso che si sono verificate a far data dalla scarcerazione di Pantaleone alias “Scarpuni” a capo dell’ala armata della famiglia. Da un lato, ha spiegato il collaboratore, vi era la fazione che faceva capo a “Peppe Mancuso, detto ’Mbrogghjia, con il figlio Domenico detto “Ninja”, Antonio Mancuso, Salvatore Cuturello, Domenico e Antonio Campisi, Giovanni, Giuseppe e Pantaleone Rizzo (alias “Leo Limps”), Salvatore e Nicola Drommi; dall’altra quella che faceva capo a “Scarpuni” con mio padre (Pantaleone alias l’Ingegnere”, ndr) Assunto Megna, Cupitò, e i fratelli di “Scarpuni”. Pranzavamo quasi ogni domenica  in questa tenuta vicino al campo sportivo di Megna, con le persone che ho citato e altre quali i Valarioti e Dominic Signoretta”.

Ha quindi riferito dei “grossi diverbi tra Domenico Mancuso e Totò Campisi con la famiglia di Assunto Megna. I primi due litigarono perché il terzo combinava sempre casini. Sul lungomare aveva commesso qualcosa di brutto” e ha aggiunto che un ulteriore frizione era causata dall’episodio in cui i Piccolo spararono a Campisi “ma Cuturello e la mia famiglia non vollero che questi fossero toccati perché facevano parte di un gruppo di fuoco di cui si serviva il clan. Alla fine ad Assunto Megna hanno saltare in aria la casa che però ricostruì subito e anche più bella di prima”.

LA LATITANZA DEL BOSS LUNI MANCUSO

Assunto Megna, era una persona astuta, che non aveva solo interessi in Argentina ma un po’ in tutto il mondo. Ed ha avuto un ruolo decisivo nella detenzione di Pantaleone Mancuso “L’ingegnere” nel Paese sudamericano. Sono state queste le parole di Emanuele Mancuso sull’imputato che ha raccontato la vicenda della latitanza e della carcerazione del padre.

È il 2014. Il boss si era rifugiato dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, per sfuggire alla giustizia italiana. Venne però catturato mentre, a bordo di un autobus, stava cercando di varcare la frontiera e andare in brasile. Nel suo borsone aveva 100mila euro.  Il collaboratore tuttavia ha specificato in apertura di argomento di non avere contezza se “Megna ha agevolato la latitanza di mio padre, ho appreso, per averlo letto, che aveva 100mila euro, poi si è detto 100mila pesos, e che in quell’autobus c’erano altre persone che erano riuscite a passare la frontiera con il Brasile, con i soldi, contrariamente a mio padre”.

IL TRUCCO PER RIDURRE IL SEQUESTRO DA 100MILA EURO A 100MILA PESOS

Nell’esporre i fatti, Mancuso ha parlato anche di un aneddoto, riferito all’escamotage utilizzato dalla famiglia per ridurre la rilevanza del sequestro del denaro: “Per come mi ha riferito mia madre, l’intenzione era quella di far passare, attraverso la corruzione dei pubblici ufficiali argentini, che il sequestro fosse stato di 100mila pesos in quanto di valore molto inferiore. Megna pertanto si era attivato in tal senso facendo leva sulle sue attività che ha in quel Paese. E questo perché, da un lato una parte di soldi ce li siamo ripresa, dall’altro perché per la giustizia italiana vi è una rilevanza differente tra un sequestro di 100mila euro e 100mila pesos”.

E durante la carcerazione dell’Ingegnere Megna, che  era spesso in contatto “con Ferdinando Saragò e che  gestiva altri sempre per conto della nostra famiglia un po’ ovunque nel mondo”, avrebbe attivato “la tutela legale e la protezione per mio padre in carcere che doveva essere trattato come un gioiello”. Un paio di giorni dopo l’arresto di Mancuso, la madre e il fratello del pentito si recarono in Argentina con un volo Dubai-Miami-Buenos Aires  mentre Megna vi andò poco tempo dopo. La distanza Nicotera-Buenos Aires è ovviamente era enorme e quindi l’unico modo, per la famiglia, per avere notizie del boss era quella di appoggiarsi da una “famiglia che comandava all’interno del carcere e che ci contattava via internet. Non lo faceva certo gratis, quindi soldi ne hanno impiegati, tant’è che poi ragionammo come poter far rientrare queste spese”.

LA LATITANZA DI MARCELLO PESCE

Altro tema trattato dal collaboratore è stato quello della latitanza di Marcello Pesce per la quale si sarebbe impegnata in prima persona la famiglia Megna: “Successe che un giorno i fratelli Perfidio (Francesco e Pantaleone) con i quali coltivavo tantissima marijuana, tanto che i soldi li sotterravamo nel terreno, mi telefonarono perché proprio dietro la loro campagna, mentre sotterravano altro denaro, si erano accorti dell’esistenza di due telecamere. Una volta sul posto, avevo notato che una di queste puntava verso la casa e il negozio di Megna, a Nicotera Marina, l’altra verso un’abitazione più spartana”.

A quel punto, Mancuso, ha aggiunto di aver chiamato “Giuseppe D’Angelo, alias “Mezzanotte”, per far avvisare i Megna. Dopo due giorni quando incontrai Assunto mi disse “’ndi sarvasti a tutti” perché li avevo avvertiti in tempo” in quanto in quest’ultima abitazione si trovava proprio Marcello per la cui latitanza “venivano prese le più disparate cautele. Nelle more, per come dettomi sempre da Assunto e D’Angelo, si era incontrato anche con Luigi Mancuso”. Gli inquirenti avrebbero arrestato Pesce di lì a poco, all’alba del 14 dicembre 2016, durante uno spostamento, in zona San Ferdinando.

LA GESTIONE DEL SAYONARA E DEL CLIFFS HOTEL

La gestione del Sayonara e del Cliffs Hotel. Una gallina dalle uova d’oro, luogo anche di summit di ’ndrangheta (qui si tenne agli inizi degli anni ’90 il “celebre” incontro tra emissari di cosa nostra e i clan calabresi per l’eventuale persecuzione, anche in Calabria della strategia stragista iniziata in Sicilia dalla Mafia).
“Il villaggio di Nicotera era gestito dal ramo di Peppe ’mbrogghjia (Antonio e Domenico Mancuso, Assunto che a quel tempo era con Peppe e mio padre) prima della scarcerazione di Luigi. Quando quest’ultimo tornò libero prese le redini della struttura”. Ha affermato il pentito che il Cliffs di Joppolo “venne rilevata da Luni “l’Ingegnere” e Assunto Megna, dopo la morte di Mimmo Ranieli, nel 2014. Assunto aveva messo due persone, Elisabetta di Capua e un ragazzo, per facciata; poi ci appoggiavamo al commercialista Zamparelli che ci gestiva tutto. Il terreno sul quale sorgeva era in concessione dal Comune che veniva sempre rinnovata e quindi eravamo sempre in relazione con i sindaci”.

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