Luigi Mancuso
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Depositate le motivazioni della sentenza “Petrolmafie”, per i giudici “Luigi Mancuso è il capo della ‘ndrangheta vibonese ma non di tutta la Calabria“
VIBO VALENTIA – Luigi Mancuso è certamente il capo della ’ndrangheta vibonese ma non calabrese. Una definizione alla quale pervengono i giudici del Collegio del processo “Petrolmafie” nelle motivazioni della sentenza depositate qualche giorno addietro. Processo che ha portato alla condanna di 35 persone e all’assoluzione di 27 e atteneva al presunto business illecito degli idrocarburi messo in campo dal clan Mancuso e in cui le figure preminenti erano proprio quella del boss di Limbadi e i fratelli Giuseppe e Antonio D’Amico, considerati sodali dell’organizzazione criminale (condannati rispettivamente a 30 e 18 anni di reclusione).
Luigi Mancuso, secondo quanto prospettato dalla pubblica accusa, era in grado di tessere ed intrecciare rapporti anche con consorterie operanti al di fuori del vibonese e questo dato proveniva sia dalle intercettazioni che dai racconti dei vari collaboratori di giustizia. Dato che però non ha convinto i giudici che hanno comunque confermato la gravità delle accuse a carico del boss infliggendogli una pena di 30 anni di carcere.
LUIGI MANCUSO “È IL CAPO DELLA ‘NDRANGHETA VIBONESE MA NON DI TUTTA LA CALABRIA”
Tuttavia, a parere del Collegio presieduto dal giudice Gianfranco Grillone, gli elementi portati a sostegno dell’ipotesi accusatoria e, dunque, dell’esistenza della ‘ndrangheta unitaria alla cui guida, nel ruolo di Crimine, vi sarebbe Luigi Mancuso, “non appaiono sufficienti, risultando piuttosto generici e, comunque, di non univoca lettura”. E il motivo è determinato dal fatto che pur essendoci collaboratori di giustizia escussi negli anni Novanta che indicano l’imputato come soggetto posto al vertice della ‘ndrangheta, tali dichiarazioni, fisiologicamente legate ad un momento storico antecedente all’operazione “Tirreno”, “non possono certo essere riproposte per sostenere l’attualità di quel medesimo ruolo in capo al Mancuso, dovendo necessariamente essere intese, al più, quale spunto investigativo da approfondire per poter affermare che ancora oggi, ad oltre vent’anni, Luigi Mancuso sia il “capo indiscusso” della criminalità organizzata calabrese”.
L’unico pentito in grado di fornire qualche elemento sul punto, in epoca “meno risalente”, è Andrea Mantella, dalla attendibilità già valutata criticamente in altra sede, il quale però “si limita a delle riflessioni e frasi assertive che non hanno trovato ulteriori riscontri in altri elementi probatori. A ciò si aggiunga come Mantella, nelle sue dichiarazioni, tenda con superficialità a grossolani eccessi narrativi, che, anziché risultare efficaci nel delineare e descrivere la figura di Luigi Mancuso, non fanno altro che sollevare dubbi sulla bontà e pertinenza di quanto narrato”.
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DELLA ‘NDRANGHETA
Il riferimento segnalato dal Tribunale è l’espressione “enfatica di “Presidente del Consiglio della ’ndrangheta” per descrivere la posizione di Mancuso, benché, ancora una volta, sia temporalmente collocata dal collaboratore negli anni Novanta”. A spostare in modo opposto rispetto alla prospettazione accusatoria il parere dei giudici su Luigi Mancuso la circostanza che neanche “gli ulteriori dati valorizzati dalla pubblica accusa, in particolare le intercettazioni, ancorché letti unitamente alle dichiarazioni del Mantella, consentono di superare tale ostacolo”.
“La definizione di De Stefano su Mancuso, ad esempio, quale “numero uno della ‘ndrangheta” – ammesso che quanto riferito da Gallone corrisponda a verità o non sia, piuttosto, frutto di una sua personale rielaborazione – non implica necessariamente l’aver voluto sottolineare la posizione verticistica dell’imputato, quanto un’esaltazione della sua figura carismatica; detto altrimenti, si tratta di un riconoscimento delle capacità criminali di Luigi Mancuso, un complimento al suo illecito agire proveniente dal suo braccio destro e, inevitabilmente, condizionato dal rapporto di fiducia e di subalternità che lo lega al suo capo; sicché quella frase, calata nel contesto descritto dal Gallone, non ha alcuna efficacia dimostrativa del ruolo di Crimine”.
I MANCUSO RAPPRESENTATI COME UNA PIGNA
Alle medesime conclusioni il Collegio perviene anche rispetto alla metafora della “pigna” (relativamente al fatto che i Mancuso sono chiusi come una pigna in quanto non fanno veicolare all’esterno le situazioni che riguardano i componenti del nucleo familiare) nonché all’accenno alla medesima “filosofia” che guida i differenti gruppi criminali, espressioni, queste, evocanti “pacificamente l’esistenza di rapporti fra le varie consorterie, rette da un medesimo modus operandi, che, tuttavia, non implicano l’incardinamento delle stesse in una più ampia struttura guidata da Luigi Mancuso”.
Infatti viene rilevato che le dichiarazioni di taluni mafiosi sono più che altro una “sorta di ammirazione fideistica che, anche estranei alla cerchia dei più stretti accoliti, provano nei confronti dell’autorevole figura di Luigi Mancuso. Ora dipinta come quella di “Presidente del Consiglio della ‘ndrangheta”, ora come quella di “numero uno” e pertanto ciò che invece di prova è rimasto sfornito è come concretamente l’imputato abbia esercitato le “funzioni presidenziali” o quelle di “numero uno” dell’intera ‘ndrangheta vibonese”.
Pertanto, andando alle conclusioni, l’assenza di ulteriori dati probatori, ancorati a dati pacifici ed obiettivi, non ha consentito al Tribunale di andare oltre al riconoscimento di quelle ontologiche relazioni diplomatiche fra gruppi criminali distinti, cristallizzate nei servizi di Ocp e nelle intercettazioni proposte al Collegio. “In tale contesto Luigi Mancuso, reggente della Locale di Limbadi – chiosano i giudici – ha mostrato una indiscussa capacità relazionale, correlata alle sue doti carismatiche, che si ripropone anche nei rapporti tra le cosche attive nella provincia di Vibo Valentia”, ma non ha più ad oggi quel ruolo verticistico descritto dai pentiti e dai suoi accoliti.
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