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Luigi Mancuso

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Le motivazioni della sentenza Rinascita scott delineano la ‘ndrangheta unitaria a Vibo Valentia attiva sotto il controllo di Luigi Mancuso


VIBO VALENTIA – Depositate in 3902 pagine, dopo circa sei mesi, le motivazioni della sentenza di Rinascita-Scott, filone ordinario, dal Tribunale collegiale di Vibo presieduto da Brigida Cavasino. Il 20 novembre del 2023 il verdetto (ci volle un’ora e mezza circa per leggere tutti i nomi degli imputati e la relativa decisione).

LEGGI LA NOTIZIA DELLA SENTENZA E LE SCHEDE DI CONDANNE E ASSOLUZIONI

In tutto 131, tra assoluzioni e prescrizioni, a fronte di 338 imputati (quindi poco più di un terzo), con oltre 2.100 anni di reclusione inflitti contro i 4700 richiesti (oltre la metà). Se per i presunti capi mafia e loro gregari le contestazioni avevano retto con condanne fino a 30 anni e in non pochi casi di entità maggiore alla richiesta della Dda, per quanto concerne l’aspetto legato ai professionisti finiti nel maxiprocesso, il verdetto non era stato aderente a quanto invocato dalla pubblica accusa.

LE ASSOLUZIONI E LE CONFERME NELLE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA

Lo dicono non solo le assoluzioni, ma anche le formule usate e le motivazioni di Rinascita Scott. Su tutte quelle dell’ex primo cittadino di Pizzo Gianluca Callipo che ha fatto una detenzione di 8 mesi, tra carcere e domiciliari, quelle per Patania, per De Filippis e altri, dell’ex comandante dei vigili urbani di Pizzo, Enrico Caria, e l’ex sindaco di Nicotera Salvatore Rizzo. Discorso articolato per l’avvocato Giancarlo Pittelli che si era visto confermare il reato di concorso esterno ma escludere altre contestazioni con la pena scesa a 11 anni contro i 17 richiesti, di fatto un terzo del totale. Un risultato che aveva confermato l’impostazione accusatoria ma che, tuttavia, aveva offerto alla difesa ampi margini per giocare la partita in Appello. E lo stesso dicasi per la posizione collegata, quella dell’agente della Dia, Michele Marinaro, 10 anni inflitti contro i 17 richiesti.

Avevano tenuto invece le accuse di concorso esterno per l’avvocato Francesco Stilo (14 anni contro i 15 richiesti), per l’imprenditore Mario Lo Riggio 17 anni, e soprattutto quelle ai presunti vertici del crimine vibonese dove spiccano le pene a 30 anni per Domenico Bonavota (30 anni per Domenico, 28 per il fratello Pasquale, 26 per Nicola e 16 per l’altro fratello Salvatore); Saverio Razionale, ritenuto a capo della Locale di San Gregorio D’Ippona, Paolino Lo Bianco (vertice della cosca di Vibo) e Antonio Vacatello (considerato esponente di spicco della ndrina di Vibo Marina).

RINASCITA SCOTT, LA ‘NDRANGHETA UNITARIA A VIBO E IL RUOLO DI VERTICE DI LUIGI MANCUSO

In questo capitolo ci occuperemo del riconoscimento della ’ndrangheta unitaria vibonese e della figura di vertice del boss Luigi Mancuso (la cui posizione tuttavia è stralciata da questo filone processuale). Il collegio di Rinascita Scott conferma dunque l’esistenza dell’unitarietà della ’ndrangheta vibonese evidenziando che «non si è al cospetto di una dipendenza “operativa-gerarchica” delle varie locali dalla struttura ‘madre’ di Polsi ma, piuttosto, di una dipendenza formale che consente di garantire il rispetto e la rigida osservanza di protocolli e regole».

Al vertice di questa associazione criminale c’è Luigi Mancuso, capo società della Locale di Limbadi, indicato come il “Supremo” o lo “zio”, “il quale, in virtù del suo grande carisma criminale e della sua lungimiranza e intelligenza, è stato in grado di influire sulle dinamiche criminali dell’intero territorio vibonese e dì intrecciare relazioni composite e fiorenti sia con i singoli sodalizi criminali operanti nella provincia, che con le altre consorterie di Reggio Calabria e della Piana di Gioia Tauro.

Dello spessore criminale di Mancuso «si ha piena contezza se solo si considera che il “Supremo” poteva sedersi al ‘tavolo’ con gli esponenti della ‘ndrangheta di San Luca». Dato emerso nei processi “Tirreno” e “Mafia Delle Tre Province”, in cui sono evidenziati gli stretti legami tra la ‘ndrangheta vibonese, capeggiata dalla famiglia Mancuso e la storica ‘ndrangheta reggina. È lui a dettare le linee guida di una nuova e vincente strategia criminale: non più fondata sullo stragismo e sulle faide tra gruppi contrapposti, ma finalizzata ad una ricomposizione dei dissidi”. La figura di Mancuso Luigi, quale soggetto capace di ristabilire l’unitarietà della ’ndrangheta della provincia Vibo Valentia e di imporsi come una figura “Straordinaria” alle altre emerge, soprattutto, dal 2012 in poi, dopo il lungo periodo di carcerazione conseguente alla condanna per associazione mafiosa.

NELLE CARTE DI RINASCITA SCOTT LA STRATEGIA DELLA PACIFICAZIONE DI LUIGI MANCUSO

Alla sua uscita dal carcere aveva messo in atto la strategia della pacificazione all’interno della propria famiglia. Il fine era quello di riavvicinare le fazioni opposte e superare la forte spaccatura interna esistente fino al 2012 e ciò “segna una nuova era per la cosca di Limbadi, dando vita ad una diversa politica criminale, non più basata sulla violenza e sullo stragismo, ma sul consenso della popolazione e sull’assoggettamento spontaneo degli imprenditori”.

Il dibattimento ha fatto emergere come Luigi Mancuso coltivasse «l’ambizioso progetto di portare la cosca Mancuso a dei livelli superiori, ad investire nell’economia lecita e ad estendere i propri tentacoli e i propri affari ben oltre il territorio dove storicamente la stessa era radicata». E gli esiti dell’attività di indagine del processo “Rinascita Scott” «mostrano con chiarezza la nuova “strategia” voluta da Luigi Mancuso». Ossia «una sorta di “pacificazione”, in chiara controtendenza con la linea che era stata seguita dal nipote Mancuso Pantaleone classe 61 alias Scarponi, che invece aveva fomentato le faide dei Patania contro i Piscopisani ed era di indole più violenta e sanguinaria».

Ad avvalorare l’esistenza della ’ndrangheta unitaria vi sono le “convergenti rivelazioni dei vari pentiti”, vibonesi e non, che hanno restituito “l’immagine di una struttura associativa articolata e composita, retta da regole e rituali tipici della ndrangheta “storica”; anche nella ’ndrangheta vibonese si impone l’osservanza dei codificati dogmi criminali di Polsi che ne costituiscono la granitica ossatura; ciò confermando l’immutabilità e, al contempo, la tangibile attualità dei precetti di ‘ndrangheta che si tramandano, senza soluzione di continuità, di generazione in generazione”.

LA “MANGIATA” A CASA DI ANTONIO LO BIANCO

Inoltre che non ci si trovi affatto al cospetto di “leggende” criminali ormai in disuso “è emerso – spiega il Tribunale – con incredibile evidenza nel corso dell’attività tecnica e investigativa svolta nel presente procedimento che ha restituito, dalla viva voce dei protagonisti, la vigenza e piena operatività delle regole formali di ‘ndrangheta. Precetti che scandiscono, condizionano e, in alcuni casi, determinano la vita criminale degli associati”. Il Collegio sottolinea inoltre che un’altra “straordinaria conferma delia tesi della unitarietà formale della ‘ndrangheta e dell’esistenza di un indissolubile cordone ombelicale tra le Locali del vibonese e la mafia reggina deriva dall’incontro registrato il 25 gennaio 2018 in occasione della cosiddetta “mangiata” svoltasi presso l’abitazione dì Antonio Lo Bianco, cl.‘48, nel corso della quale i conversanti parlano espressamente delle regole per il conferimento e il riconoscimento delle doti”.

Tale entità di stampo mafioso emerge anche dalla conversazione intercettata nella campagna adiacente all’abitazione di Pasquale Gallone, braccio destro di Luigi Mancuso, nel quale interloquendo con Lorenzo Polimeno, emissario di Orazio De Stefano, esponente dell’omonima famiglia di ’ndrangheta di Reggio Calabria, commentava il comportamento tenuto da soggetti vicini alla cosca Mancuso, rei di non aver pagato alcuni acquisti che avevano effettuato.

Pertanto, rileva ancora il Tribunale, «l’omogenea osservanza delle regole alla base dell’ordinamento della struttura criminale va sempre garantita». A tal fine «la conversazione in esame conferma esattamente quanto risulta dalla sentenza “Infinito” del Tribunale di Milano, dalla quale emerge l’esistenza di organi di coordinamento che vengono indicati come “Camera di controllo'” o “Camera di passaggio”, che avevano lo specifico compito di garantire il rispetto, anche fuori dal territorio della provincia di Reggio Calabria, delle regole formali, alla base dell’associazione mafiosa”.

TUTTE LE COSCHE VIBONESI FANNO CAPO AI MANCUSO

Tirando le somme, il Collegio mette nero su bianco che “anche allo stato attuale, tutte le cosche insediate nel territorio del vibonese facciano capo all’associazione egemone, che è quella dei Mancuso, sebbene ogni articolazione territoriale abbia una totale autonomia e indipendenza nella propria area di competenza”. E per giungere a questo assunto evidenzia che l’analisi dei precedenti giudiziari, le parole dei collaboratori di verificata attendibilità, nonché la conferma che deriva dall’attività tecnica e di intercettazione, “dimostra l’esistenza di un sistema associativo unitario. Basato su regole condivise. E questo assunto non viene scalfito dall’esistenza di alcuni momenti di fibrillazione che hanno portato le varie articolazioni di ‘ndrangheta a scontrarsi tra loro».

LA CONFERMA DELL’UNITARIETÀ CHE NASCE NEI TENTATIVI DI AUTONOMIA DI ALCUNE COSCHE

«Anzi – si dichiara ad adiuvandum – la volontà di alcune ’ndrine di espandere il proprio potere e di staccarsi dalla “casa madre”, come in occasione della “scissione” operata da Andrea Mantella con il supporto della cosca Bonavota, è un fenomeno del tutto fisiologico in alcune realtà in cui convivono più anime criminali e nelle quali ciclicamente avvengono guerre per il controllo del territorio. Tale fenomeno, lungi dal contrastare con l’idea di fondo di un sistema unitario associativo, lo conferma, perché è proprio in questi momenti che, come si vedrà nel prosieguo, chi riveste un ruolo sovraordinato cerca di intervenire per ricomporre i dissidi e imporre una pax mafiosa”.

Chiaramente possono nascere delle faide fra le varie cosche operanti in un dato territorio, in quanto in qualsiasi organizzazione complessa, e tanto più in quelle a base criminale, vi sono fasi patologiche in cui possono verificarsi scontri e azioni di fuoco reciproche finalizzate a prendere il sopravvento in un certo territorio ma per i giudici si tratta pur sempre di “episodi che, quando si sono verificati, non hanno distrutto gli equilibri complessivi della struttura criminale nei termini sopra ricostruiti, perché l’associazione mafiosa ha mostrato proprio in queste situazioni di avere gli anticorpi per superare i contrasti interni.

E neanche la nascita di nuovi gruppi criminali (indipendentemente dal formale riconoscimento di Polsi, non potendo evidentemente quest’ultimo assumere una valenza giuridica in tal senso), e la conseguente loro volontà di ottenere maggiore potere, avviando periodi di tensioni e di azioni violente nei confronti degli altri gruppi, sempre secondo il Tribunale, non mette in discussione il riconoscimento di un sistema di ‘ndrangheta unitario, che si basa sul rispetto di regole comuni “imposte” dalla mafia reggina.

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Francesco Ridolfi

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