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Riduzione in schiavitù e maltrattamenti alla moglie queste le contestazioni da cui sono stati assolti a Domenico Mancuso e Rosaria Giulia Tripodi. Vittima la testimone di giustizia Ewelina Pitzlar, per l’appunto moglie e nuora degli imputati. Accuse da cui entrambi sono stati assolti


VIBO VALENTIA – Assoluzione per entrambi e per i due capi di imputazione. Accogliendo le richieste avanzate dall’avvocato Francesca Comito, del Foro di Vibo, la Corte d’Assise di Catanzaro presieduta dal giudice Massimo Forciniti, ha fatto cadere le accuse nei confronti di Domenico Mancuso, 50 anni, di Nicotera, e della madre Giulia Rosaria Tripodi, 85 anni, di Limbadi, rispettivamente fratello e madre del boss Pantaleone alias “Scarpuni”, ritenuto capo dell’ala armata del clan, e di Giuseppe alias “Bandera”. Contestazioni, aggravate dalle modalità mafiose, mosse nei confronti della testimone di giustizia Ewlyna Pitzlar, rispettivamente ex moglie ed ex nuora dei due imputati.

Madre e figlio erano accusati di riduzione in schiavitù, reato per il quale la stessa procura distrettuale ha chiesto in aula l’assoluzione; mentre la sola donna doveva rispondere anche di maltrattamenti, contestazione per la quale il pm Francesca Delcogliano ne aveva chiesto la condanna a 4 anni di reclusione. La Corte ha fatto cadere le accuse per il primo capo di imputazione “perché il fatto non sussiste” e per il secondo “per non aver commesso il fatto” di conseguenza entrambi sono stati assolti.

La Pitzlar, testimone di giustizia dal 2013, aveva denunciato di essere stata costretta a vivere in condizioni insostenibili sempre in regime di stretto controllo e sorveglianza, subendo maltrattamenti costanti. Secondo quanto contestava la pubblica accusa, Mancuso e la Tripodi avrebbero costretto la vittima «a prestazioni lavorative che ne avrebbero comportato lo sfruttamento, consistite nello svolgimento di lavori defatiganti senza il rispetto degli ordinari tempi lavorativi, imponendo, alla donna, condizioni di vita insostenibili, consistite nel vietarle di avere contatti con terzi senza esservi stata precedentemente autorizzata e, comunque, sempre in regime di stretto controllo e sorveglianza». Condotte che sarebbero state messe in atto ricorrendo a reiterate percosse, con pugni al capo e calci all’addome e minacce consistite nell’avvertimento, rivolto dalla Tripodi alla persona offesa che, «ove si fosse ribellata, le avrebbero fatto tagliare la testa e la figlia sarebbe rimasta senza mamma»; non solo, la Pitzlar sarebbe stata minacciata, qualora si fosse ribellata, di «andare incontro allo stesso destino di Santa Buccafusca (la cognata, moglie di Pantaleone Mancuso, che dopo aver deciso di collaborare con la Dda, aveva fatto marcia indietro e il 16 aprile del 2011 era deceduta a seguito di ingestione di acido, ndr)».

Sempre Mancuso (unitamente alla Tripodi e a Salvatore Mancuso, deceduto nel 2018), fin dall’inizio della convivenza della vittima, «disinteressandosi delle condizioni di salute della compagna al momento in cui ella era in procinto di partorire, nonostante avesse necessità di assistenza a seguito del parto cesareo appena eseguito, avrebbe omesso di provvedere ai bisogni primari della figlia, appena nata». A ciò si sarebbero aggiunte continue offese rivolte alla convivente polacca e minacce di morte che avrebbero finito col cagionare «una persistente azione vessatoria idonea a ledere la personalità delle vittime attraverso maltrattamenti al punto da rendere insopportabile lo stato di convivenza». 
Accuse che, come visto, non hanno retto al vaglio dei giudici di primo grado.

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Francesco Ridolfi

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