La vittima: Bruno Lazzaro
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VIBO VALENTIA – Il fatto omicidiario era avvenuto al culmine di una complessa vicenda originatasi con l’inizio di una «relazione clandestina – scrive la Cassazione – tra la vittima e la ex fidanzata dell’imputato, all’epoca dei fatti minorenne, Marianna Emanuele», e si consumava in seno al presunto sodalizio degli Emanuele, ragione per la quale vi è una inchiesta parallela in corso ad opera della Dda di Catanzaro.
Relazione, portata avanti «per diverso tempo e ripresa una seconda volta dopo una prima scoperta da parte della famiglia della minore e dello stesso imputato, e confessata dalla ragazza all’ex fidanzato nello stesso giorno dell’uccisione».
La sentenza
È il processo per l’uccisione di Bruno Lazzaro, 27 anni, commesso tra Sorianello e Gerocarne il 4 marzo 2018 e confessato dal cugino Gaetano Muller nel corso del giudizio di primo grado. Il primo giudice aveva dichiarato l’allora 19enne responsabile del reato di omicidio, condannandolo, previa diminuzione per la scelta del rito abbreviato, alla pena di 30 anni di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite, liquidandolo nella somma di 250mila euro ciascuno per le posizioni di Viola Inzillo e Giuseppe Lazzaro e di 100mila per la posizione di Azzurra Lazzaro.
La Corte d’Assise d’Appello aveva riformato quella sentenza riconoscendo l’assenza dell’aggravante della premeditazione, e rideterminando la pena 16 anni. Infine la Cassazione il 17 marzo di quest’anno ha confermato quel verdetto rigettando sia i ricorsi della difesa in ordine alla riqualificazione del delitto in preterintenzionale e quello della Procura generale sulla premeditazione. Cassazione che ora ha depositato le motivazioni della sentenza.
Omicidio volontario
Per la Cassazione, la Corte di merito ha enucleato con «adeguata chiarezza gli elementi dimostrativi del dolo di omicidio volontario alla base della condotta posta in essere da Muller: invero, l’inflizione di una coltellata in zona vitale (quadrante addominale destro) vibrata con una notevole forza, tanto da aver provocato un massivo versamento addominale, nonché la profondità della ferita (13 cm), ben superiore alla lunghezza della lama (6-7 cm, anche tenuto conto dell’elasticità della cute nella zona d’ingresso), sono stati considerati in modo congruo e logico certi e inequivocabili indici del dolo omicidiario, non già del semplice dolo di lesioni”.
Inoltre, la valorizzazione nel senso indicato del grave fendente diretto e portato a fondo, nonché la parte del colpo attinta, vale a dire l’addome, sede di grandi vasi sanguigni e organi vitali, ha “formato oggetto di un’argomentata valutazione da parte dei giudici di merito nella direzione della loro univoca convergenza dimostrativa della consapevole volontà di uccisione, sia pure secondo la variante del dolo eventuale, nutrita dall’agente, elemento soggettivo che certamente differenzia l’omicidio volontario dall’omicidio preterintenzionale». In questa chiave di analisi, la prima doglianza del ricorso proposto dall’imputato sulla riqualificazione del reato in preterintenzionale si è quindi rivelata priva di fondamento.
Attenuanti generiche
La Cassazione ha poi confermato il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche il cui giudizio «è stato condotto nel pieno rispetto delle indicate coordinate giuridiche, atteso che la Corte di assise di appello ha attribuito valenza preponderante – rispetto agli elementi favorevoli della giovane età e del dispiacere manifestato da Muller in udienza per quanto accaduto – alla considerazione della gravità del fatto commesso dall’imputato e della sua personalità, non incline al rispetto delle regole».
Il diniego delle attenuanti generiche risulta essere stato fondato su una motivazione scevra da vizi censurabili in sede di giudizio di legittimità, siccome «sorretta da ulteriori elementi, distinti dal riferimento ai carichi pendenti e ritenuti del pari ostativi ai fini dell’attenuazione della pena: è stata evidenziata la condotta successiva al fatto, per il tramite della quale l’imputato ha omesso di soddisfare le esigenze di immediato soccorso della vittima in luogo del perseguimento di interessi personalistici, cui si aggiunge una valutazione della sua confessione in termini – non di effettiva resipiscenza – ma di mera convenienza processuale».
Il ricorso della Procura
Passando all’esame del ricorso del Procuratore generale territoriale, l’unico motivo che lo caratterizza – vale a dire il riconoscimento dell’aggravante della premeditazione – non è stato ritenuto meritevole di accoglimento: «Si rileva che, in punto di premeditazione del delitto, la stessa formulazione del capo di imputazione, nella parte in cui ha contestato la corrispondente aggravante, appare del tutto generica».
Di più, «come ha segnalato l’Autorità requirente, il fatto di avere attratto la vittima fuori dalla propria abitazione con un pretesto – come indica la contestazione – costituisce una locuzione che non individua in termini inequivoci la sussistenza dell’aggravante ritenuta in sentenza in primo grado, iscrivendosi nel parametro della mera predisposizione del delitto. Del pari, il generico riferimento all’art. 577 cod. pen. e l’individuato movente del delitto nella cessazione di una relazione sentimentale, ripresa dal cugino rimasto vittima della reazione dell’abbandonato, costituiscono dati idonei a far derivare la reazione omicidiaria da sentimenti di gelosia, ma nemmeno forniscono agganci concreti riferibili all’aggravante in esame».
A fronte di tale genericità della contestazione, la Procura ha indicato una serie di elementi «probatori e logici nella prospettiva di affermare la premeditazione, a fronte di quelli valutati per escluderla nella sentenza impugnata, in contrasto con quella di primo grado. Comparando i contrapposti ragionamenti, deve osservarsi che l’iter motivazionale adottato dalla Corte di assise di appello per giustificare l’esclusione dell’aggravante possiede una tenuta logica sufficiente, tale da non essere posta in crisi dalle deduzioni del Procuratore generale».
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