Il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso
3 minuti per la letturaVIBO VALENTIA – Si è chiusa con quattro condanne e tre assoluzioni il processo con rito ordinario sulle presunte pressioni nei confronti del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, l’ex rampollo dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Limbadi e Nicotera, al fine di indurlo a ritrattare le dichiarazioni rese alla Dda di Catanzaro e ad uscire dal programma di protezione.
La pena più pesante inflitta dal Tribunale collegiale di Vibo è stata inflitta nei confronti del fratello del pentito, Giuseppe Salvatore Mancuso, a a cinque anni e sei mesi di reclusione per la detenzione di armi e per l’evasione dagli arresti domiciliari. Assolto invece per gli altri capi di imputazione quali violenza privata, favoreggiamento e induzione a non rendere dichiarazioni nei confronti del fratello. La Dda aveva invocato a suo carico una condanna a 7 anni di reclusione e 10mila euro di multa. Rispetto alle richieste dell’accusa sono state ridotte le condanne nei confronti del padre, della madre e della zia di Emanuele Mancuso. A Pantaleone, detto l’ingegnere, Giovannina e Rosaria Rita del Vecchio è stata inflitta una pena di un anno e otto mesi di reclusione contro i due anni e sei mesi chiesti dal pm antimafia Andrea Buzzelli. Il reato di induzione a non rendere dichiarazioni contro la famiglia Mancuso è stato riqualificato dal Tribunale collegiale di Vibo a semplice tentativo.
Le assoluzioni, infine, hanno riguardato la sorella di Emanuele Mancuso, Desiree Antonella (2 anni la richiesta della pubblica accusa), Giuseppe Pititto e Antonino Maccarone (nei cui confronti era stata chiesta dal pm proprio l’assoluzione).
Il processo in abbreviato si è concluso il 7 marzo dello scorso anno con due condanne: quella a carico dell’ex compagna di Emanuele Mancuso, Nensy Chimirri, a 4 anni e di Francesco Pugliese a sei anni di reclusione.
I provvedimenti dell’autorità giudiziaria erano scattati esattamente due anni fa, con gli imputati che sono chiamati a rispondere a vario titolo di violenza privata, tentata violenza privata, reati in materia di detenzione di armi, induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, evasione, favoreggiamento personale, procurata inosservanza di pena. L’arma utilizzata dalla famiglia Mancuso per tentare di dissuadere Emanuele Mancuso (assistito dall’avvocato Antonia Nicolini) dai suoi propositi di collaborare con la giustizia, secondo la Dda, sarebbe stata la figlia nata da poco. La minaccia, infatti, sarebbe stata quella di non fare più vedere la piccola al papà. Il messaggio era impresso in una fotografia che ritraeva la piccola in braccio allo zio, mentre la compagna gli scriveva: «Puoi tornare indietro, io ci sarò, come tutti». L’intento di fare recedere il collaboratore sarebbe riuscito ai Mancuso per un brevissimo periodo di tempo: dal 20 maggio 2019 al 27 maggio successivo, quando il giovane era stato di nuovo interrogato chiedendo di rientrare nel programma di protezione.
Il collegio di difesa è costituito dagli avvocati Francesco Capria (legale di Pantaleone Giuseppe e Desiree Mancuso, e di Giovanna e Rosaria Del Vecchio), Francesco Sabatino (Giuseppe Mancuso); Diego Brancia (Pititto), Pietro Antonio Corsaro (Desiree Mancuso) e Francesco Schimio (Maccarone). Il collaboratore Mancuso, parte civile, era rappresentato dall’avvocato Antonia Nicolini.
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