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La bomba al negozio di ottica

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IL VERBALE è quello dell’1 settembre 2020. Gaetano Cannatà, ex componente del clan Lo Bianco, pur non essendovi stato mai formalmente affiliato, si sofferma sulla figura di Domenico Camillò, padre di Giuseppe, ritenuto a capo della consorteria prima che lo scettro passasse – secondo l’altro figlio, anch’egli pentito, Michele – nelle mani di Enzo Barba, alias il “Musichiere”.

IL VECCHIO CAPO AL COMANDO

Le sue dichiarazioni fanno parte del compendio depositato dalla Dda al processo in abbreviato “Rinascita-Scott” che si sta celebrando nell’aula bunker a Lamezia. Dell’imputato, il collaboratore dice che «il capo del gruppo dei “Pardea-Ranisi” e sono a conoscenza di questo dato già da prima di essere detenuto, ma come dato notorio a Vibo Valentia. Della sua appartenenza alla ‘ndrangheta gruppo “Ranisi” e del suo ruolo di vertice ho avuto poi conferma durante la mia ultima detenzione dialogando col figlio Giuseppe e con Luciano Macrì. Ricordo che i due, commentando le contestazioni mosse nel processo “Rinascita” e, in particolare, quella dell’associazione mafiosa a vari soggetti, rilevando che a Camillò era stato contestato un altro comma dello stesso reato, notarono come ciò fosse inevitabile atteso il ruolo ricoperto dallo stesso nell’organizzazione. In particolare Macrì mi disse che effettivamente il gruppo dei “Ranisi” faceva capo proprio alla persona di Domenico Camillò».

Cannatà ricorda, che circa il significato concreto di questa affermazione, un altro episodio verificatosi in carcere in cui era da solo con Macrì: «Si parlava delle buone condizioni economiche in cui versava la famiglia Camillò ed io manifestai le mie perplessità in relazione al fatto che Domenico Camillò fosse un semplice impiegato presso l’ospedale di Vibo Valentia, per cui non mi spiegavo il loro tenore di vita. Al che Macrì, confermando quello che già mi aveva anticipato nella precedente occasione che ho descritto, mi disse che tutti i proventi delle estorsioni poste in essere dal gruppo, venivano raccolti da Camillò».

Sul punto il collaboratore precisava che tale particolare Macrì non glielo avesse riferito nella prima occasione «per non urtare la sensibilità del figlio Giuseppe a quel colloquio, anche in considerazione di qualche screzio che c’era stato tra questi e Camillò stesso per il mancato sostegno da parte della cosca “Ranisi” che il primo aveva riscontrato a seguito della sua carcerazione. Devo dire che comunque tutti rispettavano Domenico Camillò, la cui autorevolezza era unanimemente riconosciuta».

I FAVORI PER LE VISITE MEDICHE

Cannatà, come detto, ha riferito di non essere mai stato affiliato ma di mantenere buoni rapporti con tutti e soprattutto con i cugini Giovanni e Carmelo D’Andrea «ai quali mi rivolgevo qualche volta per chiedere qualche favore. Ad esempio a loro mi rivolgevo nel caso in cui dovevo prenotare una visita medica presso il locale ospedale, in quanto gli stessi erano in grado di intercedere su alcuni sanitari ed ottenere delle agevolazioni, quale quella di anticipare la prenotazione della visita medica».

Carmelo che, dopo l’arresto nell’operazione Nuova Alba, «ha ottenuto una scarcerazione per motivi di salute in quanto un medico compiacente ha certificato uno stato depressivo inesistente».

LE BOMBE

In seguito ha riferito sull’esplosione di una bomba posta a scopo estorsivo nei pressi di una palestra all’incirca nel 2010 di cui «ho appreso da mio cugino Carmelo, componente dei Lo Bianco-Barba, così come il figlio Giovanni. Sempre Carmelo mi riferì in ordine ad un’altra bomba fatta esplodere nei pressi di un’ottica, se non erro l’episodio risale al 2011/2012 e mi specificò che non era a scopo estorsivo ma dovuto ad attriti che ci erano tra il proprietario dell’ottica ed altri soggetti».

FEDELISSIMO DI “POMODORO” E POI DI “PICCINNI”

Anche Cannatà rivela che dopo la morte di Carmelo Lo Bianco, lo scettro del potere passò «a Enzo Barba» per poi tornare a parlare dei D’Andrea, aggiungendo che sin da ragazzino ha «sentito dire in ambito familiare che Carmelo fosse un componente del sodalizio di ’ndrangheta operante a Vibo. So che storicamente è stato un fedelissimo di Francesco Fortuna detto “Ciccio Pomodoro”, fino all’epoca della sua uccisione, avvenuta se non ricordo male negli anni Ottanta, a seguito della quale lui si legò maggiormente a Carmelo Lo Bianco. Questa consapevolezza l’ho maturata sentendo i discorsi che D’Andrea intratteneva con altri familiari o soggetti a lui legati e poi anche perché, vivendo nel medesimo palazzo, ho potuto constatare come lo stesso non abbia mai lavorato in vita sua e vivesse di espedienti criminali».

«SI OCCUPAVA DI ESTORSIONI»

Il pentito, tuttavia, racconta tuttavia di non conoscere «nel dettaglio le condotte che il congiunto concretizzava all’interno della cosca», precisando al contempo che «molti soggetti, soprattutto altri sodali, si recavano da lui per la risoluzione di vari problemi; aveva l’autorità per “sistemare” determinate situazioni perché poteva parlare a nome dei “Lo Bianco” e spesso lo vedevo parlare con esponenti di altre cosche operanti sul territorio». Al riguardo, Cannata riferisce che D’Andrea «spesso si relazionava spesso con Francesco Scrugli e con Andrea Mantella, altresì con Paolino Lo Bianco, con suo fratello Domenico, con Vincenzo Barba ed anche con tale ‘Ntoni u Lorduni, del quale non conosco il vero nome».

LA MERCE «PRESA SENZA PAGARE»

Sempre parlando della figura di Carmelo D’Andrea, il pentito rivelava come questi si occupasse «prevalentemente di estorsioni. Ricordo che, quando avevo il bar a Vibo Valentia – che ho gestito dal 2007 al 2014 – mi occupavo anche di catering per mense scolastiche e acquistavo la mozzarella presso la latteria dei fratelli Lo Bianco, sita in contrada Bitonto di Vibo Valentia, ed in tali circostanze entrai in amicizia con il proprietario. Quest’ultimo in più occasioni lamentava che D’Andrea Carmelo ed il figlio Giovanni si recavano da lui e prelevavano della merce senza pagare. Il titolare del caseificio – che mal tollerava di dover pagare questa “mazzetta” – ovviamente sapeva dell’appartenenza del di Carmelo alla criminalità organizzata e pertanto accettava, pur se mal volentieri, di cedere la propria merce gratuitamente per timore di ritorsioni. Ho notato personalmente padre e figlio prelevare merce presso il caseificio senza pagare e la stessa situazione l’ho notata personalmente anche presso la macelleria di tale Francesco Chiarella ubicata a Vibo in via Giovanni XXIII».

LE TRUFFE ALLE ASSICURAZIONI

Molto articolato anche il racconto su Giovanni D’Andrea che «era solito fare truffe alle assicurazioni; inoltre padre e figlio si recavano circa tre volte l’anno, in occasione di ricorrenze e festività, presso le agenzie assicurative della città per prelevare delle somme di denaro sotto forma di imposizione estorsiva; ricordo in una occasione almeno di aver personalmente sentito Carmelo dire al figlio di recarsi presso un’agenzia assicurativa per prendersi i soldi.

A tal proposito ricordo che vi era un perito che si rifiutava di avallare con la sua attività professionale tali falsi sinistri, al quale hanno incendiato due volte l’autovettura. A seguito di uno di tali episodi commentavo tale notizia con Giovanni, il quale auspicava che con tale danneggiamento il perito avesse appreso la lezione: “Così se la porta bene pure lui”, disse».

Una circostanza, questa, che a dire di Cannatà sarebbe avvenuta nel 2009-2010 e che all’incirca nel medesimo periodo, ci fu un altro danneggiamento, mediante incendio dell’autovettura, ai danni di un altro perito assicurativo, amico dello stesso pentito: «Quest’ultimo mi raccontò tale episodio ed io mi rivolsi a mio cugino Giovanni – in virtù della sua appartenenza al medesimo sodalizio del padre e, quindi, quale soggetto in grado di reperire informazioni all’interno di circuiti criminali – per sapere da chi provenisse tale intimidazione. Quest’ultimo mi rispose testualmente “fatti gli affari tuoi che deve imparare a comportarsi bene questo perito”. In tali situazioni i miei cugini Carmelo e Giovanni mi davano modo di comprendere che loro facevano parte della criminalità organizzata vibonese».  

LA VENDITA DI PIANTE

Ulteriore attività riferita dal collaboratore di giustizia agli investigatori della Dda di Catanzaro, attiene alla vendita, da parte dei due D’Andrea, delle piantine nel periodo natalizio, con modalità che «tradivano la natura estorsiva della cessione, letteralmente imposta, in quanto lo stesso Giovanni, in una occasione in cui ero in macchina con lui mentre distribuiva presso i vari esercizi queste piante, ebbe modo di ammettere che lui le lasciava davanti ai negozi e successivamente passava a riscuotere il prezzo della vendita e che l’acquirente non poteva rifiutarsi di acquistarla; alla mia osservazione circa il possibile rifiuto del commerciante di acquistarle, infatti, lui rispose: “La devono volere per forza”».

E se queste azioni descritte «i D’Andrea le commettevano per il proprio arricchimento personale, altre le compivano direttamente per conto della consorteria e nel suo interesse; infatti gli stessi affermavano spesso davanti a me, quasi vantandosene, che chiunque eseguisse dei lavori su Vibo Valentia, soprattutto se proveniente da altri paesi, avrebbe dovuto pagare “loro”, intendendo in questo caso la cosca Lo Bianco-Barba, asserendo testualmente “qua a Vibo comandiamo noi”. Dal tenore delle loro parole si comprendeva che erano proprio loro a recarsi per conto dell’organizzazione presso la vittima per avanzare le illecite pretese. Anche tali vicende si verificavano nel medesimo periodo».

“QUI COMANDIAMO NOI”

Quando Carmelo D’Andrea avrebbe riferito questa frase al collaboratore, quest’ultimo precisa che lo stesso congiunto «faceva chiaro riferimento agli esponenti di vertice del suo sodalizio che riconosceva espressamente in Paolino e Domenico Lo Bianco, Vincenzo Barba e questo ‘Ntoni Lorduni. Lui espressamente descriveva i suoi rapporti con queste persone quali soggetti a lui legati dalla comune appartenenza criminale e quali soggetti che erano il suo “riferimento”».

D’Andrea che «ammetteva di far parte del sodalizio diretto da Carmelo Lo Bianco e di essere stato in passato a questi subordinato, ciò avveniva ovviamente prima della morte di quest’ultimo. Dopo tale decesso mio cugino mi riferiva che le redini del comando in seno alla consorteria erano state assunte dal figlio Paolino e da Enzo Barba, per come mi riferì lo stesso Carmelo D’Andrea».

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Alessandro Chiappetta

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