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L'aula bunker dove si svolge il processo Rinascita Scott

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VIBO VALENTIA – «Mi chiamo Arena Bartolomeo, sono nato a Vibo Valentia il 15 novembre del 1976 e intendo rispondere».

È finalmente arrivato il momento di “Vartolo” al processo Rinascita-Scott che si sta celebrando presso l’aula bunker della Fondazione Terina, nell’aula industriale di Lamezia Terme.

Dopo oltre un mese e mezzo di audizione di Andrea Mantella, adesso è la volta di uno degli ultimi collaboratori di giustizia vibonesi, certamente, secondo la procura distrettuale, uno di quelli che conosce il panorama criminale soprattutto della città capoluogo per essere stato componente del nuovo gruppo staccatosi dalla cosca madre “madre” dei Lo Bianco e costituito per lo più da nuove leve.

Fedelissimo di Francesco Antonio Pardea, col quale afferma di aver condiviso buona parte della propria storia criminale, Bartolomeo Arena, figlio di Antonio, vittima di lupara bianca nella seconda metà degli anni ’80, ha iniziato ufficialmente alle 14.40 il suo esame nel maxi procedimento penale, nella prima di almeno una decina di udienze che vedranno pubblica accusa e Collegio di difesa confrontarsi, chiedere chiarimenti, rafforzare e confermare (la prima) o smontare (il secondo) la credibilità dello stesso teste, assistito dall’avvocato Giovanna Fronte.

LA FAMIGLIA DI ORIGINE

Una volta superati gli ormai immancabili problemi di collegamento con le varie case circondariali, il pentito, rispondendo alle domande del pm della Dda, Antonio De Bernardo, ha iniziato col parlare della propria numerosissima famiglia che da entrambi i rami annoverava «soggetti di ’ndrangheta. Da parte mio nonno c’erano tutti i Pugliese, con “Peppino Pugliese che era stato capo società, prima di lui c’era Salvatore Franzé detto “Pagnotta”. Domenico Camillò, cl ’41, è “invece primo cugino di mia madre”». Nonostante questo, precisa, non ha «avuto un’educazione in tal senso e questo perché i miei genitori avevano un accordo: non dovevo fare né il poliziotto né il delinquente».

Un ragazzo con una vita normale, Bartolomeo Arena, che frequentava anche «la scuola delle suore».

Il padre Antonio faceva parte del «gruppo Pardea fin dagli anni ’70, poi nel ’72 mio nonno Vincenzo Pugliese Carchedi, venne arrestato per il sequestro di persona di Andrea D’Amato, un imprenditore alimentare, insieme a Galati e un Muzzopappa. In carcere lui si legò a Giuseppe Mancuso detto ’Mbroghia, ma il carcere lo reggeva mio nonno». La frizione tra questi e i Pardea si consumò ben presto in quanto «Domenico e Rosario Pardea accusavano mio nonno di aver portato avanti il sequestro senza rendere partecipe la “Società”, cosa che non era vera. E così quando usci dal supercarcere di Palmi in cui l’avevano trasferito, si staccò da loro».

Vibo negli anni ’60 era «piena di famiglie malavitose: Lo Bianco, Pardea, Catania, Primavera, Fortuna, Arena, Pugliese e a capo della “Locale” c’era Rosario Pardea con contabile Salvatore Morelli».

Questo scenario si mantenne fino agli anni ’70, quando il nonno di Arena «fondò un locale a Vibo Marina e Portosalvo, con Nicola Tripodi e Antonio Contabile, alternativo ai Pardea, mentre mio padre era rimasto con questi ultimi. Poi, loro caddero in disgrazia, dopo che “Michelino e Francesco Pardea, uccisero un ragazzo parente dei Franzé, e iniziarono le discordie interne con relativa perdita di consensi; la goccia che ha fatto traboccare il vaso fu dovuta all’assenza per la terza volta da una riunione di Francesco Pardea e da quel momento Francesco Fortuna divenne “Capo società”».

LA FIGURA DEL PADRE

Il 3 gennaio del 1985 la vita di Bartolomeo Arena cambia. Il padre Antonio esce «di casa la mattina e non fa più rientro». Lui aveva 8 anni e mezzo, e quindi all’inizio non capì bene cosa fosse successo, ma «col passare dei giorni compresi che c’era qualcosa che non andava. Per 3-4 anni mi sono chiuso in me stesso, non riuscivo più a parlare di lui, e ricordo che uscivo con Giuseppe Camillò, figlio di Domenico Camillò, e Luigi Vitrò e un cugino di Mantella, Giuseppe (Pino “a Guscia”)». Ed è stato in quel periodo che Arena ha iniziato a capire che chi frequentava e incontrava «non erano certo gli amici del circolo del tennis, si capiva chi era ’ndranghetista». Da lì, animato dalla necessità di capire che fine avesse fatto il padre, chiese a suo nonno Vincenzo Pugliese Carchedi di raccontargli tutta la storia: «Mi disse che era scomparso e che era stato ucciso perché i suoi amici l’avevano tradito. Lui era legatissimo a Carmelo D’Andrea, Carmelo Lo Bianco, Mimmo Piromalli, i “Cassarola”, Enzo Barba e Francesco Fortuna, alias, “Pomodoro” il quale mi disse che una volta uscito dal carcere si sarebbe preso cura di me. Aveva mezzo mondo contro e, so che è un esempio sbagliato, ma uomini come lui non ne nasceranno più a Vibo».

L’ADOLESCENZA E IL MENTORE

Ma fu Giuseppe Mantella, colui il quale può essere definito il mentore di Arena, a metterlo sotto la sua ala protettiva e instradarlo nell’ambiente ’ndranghetista locale, illustrandogli anche tutta la situazione che ruotava attorno alla sorte del padre. Intorno ai 15 anni, con la morte di Mantella in un incidente con la moto, iniziò a legarsi a Antonio Grillo (alias Totò Mazzeo) e qualcuno dei Lo Bianco. Già aveva commesso qualche episodio criminoso, come qualche danneggiamento.

LA STRAGE DEL 501

Siamo a cavallo tra il 1979 il 1980. Nei pressi del 501 Hotel si presenta un ragazzo, Domenico Servello, che gli viene impedito di entrare nel locale e finisce con l’essere aggredito.

Questi se la legò al dito e tornò poco dopo, pistola in pugno, sparando all’impazzata, finendo col ferire “Enzo Di Renzo, Antonio Fortuna, fratello di Francesco, e suocero di Saro Pugliese, Niuccio Franze, cognato di Andrea Mantella, e Lello Pardea “U ranisi”, e con l’uccidere due ragazzi: Vincenzo Fortuna e un Fiorillo di Vibo”.

Questo Servello, originario di Ionadi, nonostante avesse 19 anni, “era già un killer – racconta Arena – ed aveva una grande amicizia con i Tripodi di Portosalvo. Cercò di trovare rifugio presso di loro ma trovò nessuno e quindi si recò a Maropati, delle famiglie Napoli e Varone, con questi che erano compari con Ciccio Fortuna”.

Scattò, quindi, la trappola per il fuggitivo con i Varone che “avvisarono Fortuna che Servello si trovava da loro. Mio padre e Fortuna andarono quindi a Maropati e lo fecero eliminare”. Ma Peppe Mancuso andò su tutte le furie “perché voleva restituito il corpo andando a litigare Fortuna e mio padre”.

La condanna a morte di Antonio Arena

Il padre del collaboratore pagò con la vita la sua contrapposizione al clan Mancuso, in particolare a Peppe Mancuso, alias “Mbroghjia” che aveva sempre più accoliti, anche nella stessa città di Vibo. Il genitore faceva “estorsioni e metteva bombe su Vibo, ma i Mancuso pretendevano di essere informati”.

Il pentito ha quindi riferito di aver appreso da Carmelo D’Andrea che una volta, sempre nella metà ’80, “questi si recò insieme a mio padre e a Paolino Lo Bianco, nell’area dello Zomaro, al tempo meta di latitanti dove c’era Giuseppe Mancuso il quale avrebbe voluto ucciderli, solo che gli Albanese si erano resi garanti per questo incontro e quindi non se ne fece nulla”. Mancuso che voleva eliminare il padre del collaboratore potendo contare anche sui “sangregoresi, vale a dire i Fiarè-Razionale-Gasparro, che con i vibonesi facevano finta di essere in guerra quando in realtà non era così”.

E così, il sabato precedente al 3 gennaio 1985, il padre di Arena si trovava al mercato di Vibo dove fu raggiunto da “Gregorio Giofrè e Nicola Fiarè i quali gli dissero che voleva vederlo Giuseppe Mancuso per parlargli. In realtà, già 10 giorni prima avevano fatto pace alla presenza di Cecè Mammoliti, tant’è che avevano anche mangiato insieme. Comunque, lui lasciò la pistola, per non far vedere che aveva intenzioni bellicose, e scese a San Gregorio da cui non tornò più a casa”.

La verità sulla sorte del padre Bartolomeo Arena la seppe solo negli anni 2000, perché gliela riferì “Giovanni Franzé. Quando Giuseppe Mancuso si trovava latitante presso i Patania di Stefanaconi con cui era legato lo stesso Franzé, una sera gli raccontò il fatto: fu sparato in testa e il corpo adagiato sul fiume Mesima per consentire che si decomponesse, poi non so se è stato seppellito altrove”.

Dopo l’uccisione del genitore l’unico del gruppo di “mio padre che voleva accennare una reazione fu Domenico Piromalli ma poi non si fece nulla”; salì a Vibo anche “Cecè Mammoliti e per il tramite di Carmelo Lo Bianco, alias “Sicarro”, offrì appoggio alla mia famiglia ma questa ebbe paura perché si pensò che si trattasse di una “carretta” e che ognuno di loro sarebbe finito in trappola, ma non era così”.

Dopo l’uccisione di Antonio Arena e poi di Francesco Fortuna (nell’88), a Vibo presero definitivamente piede i Mancuso.

La sparatoria all’istituto d’arte

Nel 1999 esce dal carcere per la sparatoria avvenuta qualche tempo prima sotto l’istituto d’arte, causata dalle gravi frizioni con la famiglia Greco di San Gregorio per via di un pestaggio ad uno dei componenti.

Il teste riferisce che gli era stato riferito, quella mattina, di non recarsi in piazza Municipio perché c’erano tutti i Mancuso e i Greco: “Io in quel periodo ero una testa calda e invece ci andai. Sotto l’istituto d’arte fui circondato da circa 30 persone.

Alla fine la situazione si stava chiarendo, ma poi intervenne Marcello Greco che mi disse che se ogni volta che mi recavo a Sant’Onofrio dovevo mettermi “un dito nel culo”, ma io risposi che a Sant’Onofrio scendo per trovare amici e non certo loro”.

Gli animi si surriscaldarono nuovamente fin quando Arena prese la pistola che aveva portato con sé iniziando a sparare all’impazzata: “C’era gente che si rifugiava dietro le palme di piazza Municipio, dietro i “formaggini”. Mi spiace che rimase ferita alla tempia una ragazza di Paravati. Mi buttai latitante per circa un mese prima di costituirmi”.

L’accoltellamento del direttore della Bnl

L’anno non l’ha specificato ma la circostanza la ricorda benissimo. È quella del ferimento dell’allora direttore della Bnl di Vibo. Il pentito racconta che gli “fu chiesto di accoltellarlo in quanto mi dissero che era una persona meschina, e allora accettai. Ricordo che abitava nel palazzo vicino la latteria del Sole e che era, originario di Messina. Pertanto, l’ho seguito per un paio di giorni per conoscere le sue abitudini prima di entrare in azione. Quando avvenne il ferimento, avevo il volto coperto con una calza di nylon, e nel momento in cui, la sera, lo vidi entrare nell’androne del palazzo, lo spinsi e gli sferrai 3-4 coltellate. Poi ho saputo che non era quella figura cattiva di cui mi parlarono”.

La conoscenza di Mantella che non collima con quelle dell’ex boss di Vibo

Bartolomeo Arena ha raccontato di conoscere Andrea Mantella perché “eravamo dello stesso quartiere”, mente l’ex boss di Vibo ha riferito in udienza – ed anche in altri procedimenti penali – di non aver mai avuto rapporti con “Vartolo”, mentre quest’ultimo ha riferito di una conoscenza approfondita, anche di “giornate trascorse al mare”.

Una figura, quella di Mantella, che il pentito tratteggia con dovizia di particolari, anche sulla personalità: “A quel tempo Andrea Mantella “aveva una scia di omicidi e nessuno poteva dirgli nulla. Onestamente in una “Società” giusta doveva essere contrastato e per questo è diventato quello che è, perché nessuno gli ha mai detto nulla in quanto era uno capace e se si fosse messo contro di loro (i Lo bianco-Barba) se la sarebbero vista brutta. Lui non aveva paura di nessuno. Nel 2003 aveva un folto gruppo di accoliti: Francesco Scrugli, Roberto Cutrullà. Giuseppe Pugliese Carchedi, e Domenico Macrì e tanti altri. Successivamente sarebbe entrato anche Salvatore Morelli”.

Il cugino “testa calda”. Giuseppe Pugliese Carchedi si legò “tantissimo ai piscopisani e frequentò la casa di Nazzareno Felice, detto “il Capo”, mantenendo così rapporti anche con Gregorio Gasparro. Io in quella fase ho avuto spesso da ridire con lui perché ne disapprovavo la condotta”. Soprattutto quella sentimentale che lo avrebbe portato alla morte: “Era fidanzato con la figlia di Enzo Barba – racconta Arena – ma aveva una relazione con la figlia di Felice e pertanto è successo un casino”.

Siamo nel 2004-2005. Pugliese Carchedi non solo aveva iniziato ad alzare la testa anche a livello criminale, commettendo danneggiamenti, ma era inviso a Nazzareno Felice e anche a parte del suo gruppo per la vicenda della doppia relazione. La questione tuttavia inizialmente rientrò per via dell’intervennero dei capi: “In una riunione chiarificatrice poi c’erano da un lato Francesco Scrugli, mandato da Mantella, Vincenzo Barba, Paolino Lo Bianco e Carmelo lo Bianco; dall’altro lato vi erano Nazzareno Fiorillo, Giuseppe Galati e Nazzareno Felice. Quest’ultimo lo voleva uccidere ma Scrugli rispose che Peppe non si “toccava neanche con un fiore”.

La speranza era che avrebbe messo la testa a posto ma lui non sentiva ragione. E così quella relazione, scoperta da Enzo Barba che gli puntò la pistola alla testa, continuò”.
I tentativi del cugino di far ragionare il congiunto andarono a vuoto. Una sera quest’ultimo ricevette la telefonata di una ragazza “che appellò pesantemente, dai toni accesi e che terminò molto male. E infatti tempo un mese gli fecero l’agguato sotto casa di Barba al quale riuscì a sfuggire a bordo di una minicar anche se venne ferito alla spalla sinistra dai pallettoni di fucile”. Poco dopo (2005) scattò l’operazione Asterix dopo la quale non ho più rivisto vivo mio cugino”, ha commentato il pentito.

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