L'aula bunker di Rinascita Scott
6 minuti per la letturaVIBO VALENTIA – La faida a Stefanaconi nella prima decade degli anni 2000; le lupare bianche, gli omicidi, le intimidazioni. Continua l’escussione dell’ex boss di Vibo, Andrea Mantella, al processo “Rinascita-Scott” e questa mattina si è concentrato sulle figure di Antonino Lopreiato, alias Ninu u Murizzu e sulla sparizione di Michele Penna.
L’uccisione di Nino U Murizzu. Antonino Lopreiato fu ucciso perché stava prendendo potere nella zona di Stefanaconi e questo non piaceva ai Bartolotta-Bonavota. Ma pagò con la vita l’intromissione nella vicenda della sparizione di Michele Penna, avvenuta nel settembre del 2007. “Ninu u Murizzu” (questo il suo alias), vecchio appartenente della Locale di ’ndrangheta del piccolo centro del Vibonese, viene ucciso l’8 aprile del 2008.
Una data che Andrea Mantella, pur non essendo coinvolto nella vicenda, ricorda bene perché coincide col decesso del padre. Una figura ingombrante che soprattutto i Bonavota volevano togliersi davanti anche perché, racconta il pentito, “su Sant’Onofrio aizzava due cugini contro di loro, ricreando quelle vecchie ruggini iniziate negli anni ’80 e culminate con la strage dell’Epifania del 1991; una condotta che, dall’altro lato, fece riprendere i progetti omicidiari nei suoi confronti”.
E anche il pentito avrebbe dato una mano in quegli anni (2004-2006) ad “abbatterlo” senza però troppa fortuna: “Non riuscimmo mai ad intercettarlo tranne in una occasione che però ci indusse a rinunciare in quanto lo sorprendemmo dentro la sua Fiat Panda in presenza della figlia; ero con Francesco Fortuna e Barbieri”.
Inutili anche gli appostamenti nei pressi della Tangenziale Est, nei pressi della sua abitazione solo che “lui non usciva di casa, altrimenti l’avremmo colpito con il kalashnikov o con qualche fucile”, aggiunge Mantella, ricordando di aver appreso la notizia della sua uccisione mentre si trovava a “Villa verde” “ma – specifica – non rimasi sorpreso più di tanto perché in pratica era un morto che camminava; e la sua morte interessava anche Antonio Emilio Bartolotta che ne fu il mandante, e questo perché Lopreiato fece esplodere una bomba a Vibo Valentia ai danni di un locale di proprietà del primo, sito nella zona moderata Durant”.
Che “Ninu u Murizzu” fosse un bersaglio dei Bonavota, secondo Mantella, era dovuto anche al fatto che una volta “lasciò dei lumini e fiori davanti l’abitazione di un uomo vicino a Domenico Cugliari, alias Micu u Mela”; si impose quindi un chiarimento che avvenne all’interno di un ovile della zona e “lui – racconta ancora l’ex boss di Vibo – si presentò con un figlio di ’Nato Patania, credo Saverio. Cugliari voleva che loro non se ne andassero più da lì ma il fatto di non dover lasciare testimoni, e quindi uccidere altre persone, rappresentò un freno”.
I rapporti Bartolotta-Bonavota. “Il primo aveva una ndrina distaccata che faceva riferimento su Stefanaconi a Domenico Cugliari e ai fratelli Bonavota”, espone, ancora, il collaboratore, spiegando che sempre Bartolotta “inviava i pizzini a Cugliari sollecitandolo ad agire nei confronti di Lopreiato. Non aveva l’autorità per prendere decisioni per conto dei Bonavota e quindi poteva mandare solo imbasciate aspettando risposte positive in tal senso”.
La scusa delle scimmie e l’uccisione di Salvatore Foti. IN quegli anni (2004-2009) il territorio compreso tra Stefanaconi e Sant’Onofrio era molto caldo; di fatto un preludio a quanto sarebbe avvenuto pochi anni dopo lungo l’asse Piscopio-Stefanaconi-Vibo. Omicidi, lupare bianche, danneggiamenti ed intimidazioni tra le forze criminali in campo. Lopreiato era impegnato non solo ad acquisire potere ma anche a trovare il corpo di Michele Penna, l’assicuratore del luogo, ritenuto legato alla fazione opposta dei Bartolotta, scomparso nel nulla il 19 settembre del 2007. Ninu u Murizzu aveva identificato in Salvatore Foti quale uno dei soggetti coinvolti nella sparizione e con “la scusa di far vedere a quest’ultimo una gabbia per le scimmiette, lo fece a sua volta scomparire nel nulla. Lopreiato era impegnato, col maresciallo di Sant’Onofrio e Giovanni Franzé, per recuperare il corpo del povero Michele Penna”.
Michele Penna, vittima di lupara bianca. Michele Penna, all’epoca della sua scomparsa, aveva 30 anni. Venne attirato in una trappola – tesa secondo le indagini da Andrea Foti (cugino di Salvatore) ed Emilio Antonio Bartolotta – e ucciso all’interno di un’auto, in una zona isolata. Il suo corpo, nonostante i genitori per anni abbiano tentato invano di trovarlo, facendo scavare in numerose zone dell’area del Mesima, non fu mai individuato. Andrea Mantella racconta in aula di aver conosciuto il giovane, definendolo “un ragazzo perbene, impegnato in politica, nell’Udeur (era segretario cittadino dell’Udc, ndr) con Franco Stillitani, ed era figlio di persone a modo.
Poi sposò la figlia di Nicola Bartolotta, vecchio capo ’ndrangheta di Stefanaconi, e in giro si diceva che venne ammazzato per una questione di donne, si vociferava, infatti, che avesse una relazione con una parente di Domenico Cugliari”. La reazione alla sparizione di Penne azionò la “macchina della giustizia poco trasparente che vide coinvolti oltre al maresciallo di Sant’Onofrio anche il prete don Santaguida che interpellarono i vari esponenti ’ndranghetisti di Stefanaconi come Giovanni Franzè e appunto Lopreiato, quanto meno per riavere indietro i resti del corpo”.
Dopo l’uccisione di Antonino Lopreiato prese piede a Stefanaconi la fazione di Bartolotta che venne arrestato per l’omicidio di Penna, salvo poi essere scarcerato poco dopo e “si stava attrezzando per fronteggiare i Patania e gli altri Bartolotta”.
La faida e l’omicidio Scrugli. Dopo poco più di tre anni, il territorio di Stefanaconi diventa nuovamente un luogo in cui il sangue torna a scorrere a fiumi. È il periodo (2011-2012) della faida tra due nuovi gruppi, i Piscopisani e i Patania. Mantella è fuori causa perché è attinto dalla misura cautelare di “Goodfellas”. Ciò nonostante, ha occhi e orecchie all’interno del gruppo emergente di Piscopio. Si perché il nome del “Cavallo di Troia” che aveva messo al suo interno era quello del suo fidato braccio destro armato, Francesco Scrugli.
Una mossa che, però, lo porterà alla morte per mano dei Patania. Ed infatti, di questa circostanza, l’ex boss di Vibo dice di sentirsi “ancora in colpa. Lui – aggiunge – era un azionario, un killer, ma non aveva una visione criminale come la mia che guardava oltre lo sparare soltanto. E con i piscopisani portò avanti il proposito omicidiario nei confronti di Pantalone Mancuso, detto “Scarpuni”, ma commisero l’errore di farlo sapere a Saverio Razionale, per il tramite di Michele Fiorillo alias “Zarrillo”, che se li è “venduti”, nonostante io li avessi messi in guardia”.
E Mancuso non fu l’unico obbiettivo a sfumare: “Anche gli altri non riuscirono ad abbatterli, come ad esempio Giuseppe Antonio Accorinti; “Scarpuni”, invece aveva smesso di andare in giro in spiaggia o a passeggiare a Nicotera Marina. Al che, a Scrugli dissi che avevano commesso un errore e che l’avrebbero pagata. Ed infatti così avvenne perché lui fu ammazzato a marzo del 2012”. Più tardi, nel carcere di Viterbo, Franco Alessandria, alias Mustazzo, “mi raccontò i fatti dicendomi che fu indicato da Pantaleone Mancuso di pedinare Scrugli”.
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