Emanuele Mancuso
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VIBO VALENTIA – Tredici pagine acquisite al dibattimento Rinascita-Scott. Sono quelle del verbale di Emanuele Mancuso aventi ad oggetto, tra l’altro, gli affari del clan nel settore dei carburanti, le colonnine di benzina sparse sul territorio vibonese (come emerso nell’inchiesta Petrolmafie). Ma all’interno viene tratteggiata anche la figura di Francesco Mancuso, detto “Tabacco” oltre a quella di Antonio Prenestì, detto “Totò Yo-yo”, il braccio armato del boss Luigi Mancuso.
CICCIO TABACCO, IL MANCUSO ODIATO DALLA SUA FAMIGLIA
L’ex rampollo del casato mafioso di Limbadi offre un ulteriore spaccato interno alla sua famiglia. E lo fa parlando dello zio Francesco, uno «che conta nella famiglia anche se non so che dote abbia nella ‘ndrangheta, perché ho avuto sempre un atteggiamento disincantato verso queste questioni rituali, ma so per certo che fa parte del clan, con un molo di peso, anche se in disaccordo con molti dci maggiorenti (gli “ziani”, Luigi, Cosmo, Antonio) ed ha sicuramente dei limiti e si deve fare spazio in mezzo agli altri. Quel giorno che gli hanno sparato (in cui fu ucciso Lele Fiamingo, ndr) addirittura tornò a casa per non far apparire che fosse in difficoltà all’interno del clan, nonostante avesse perso molto sangue. Fu il figlio a portarlo in ospedale».
Tabacco, per come riferisce il collaboratore, voleva «imitare l’altro zio, Luigi, e per certi versi voleva riunire la famiglia, soprattutto dopo la sua scarcerazione, anche se aveva tutti gli zii contro». E qui emerge come lo stesso Luigi «lo odia, Cosmo voleva ucciderlo e non c’è riuscito, lo zio Antonio pure lo detestava, anche in ragione di screzi con i Cicerone, ai quali aveva fatto saltare in aria la macchina, come si evince anche dalle carte del processo Dinasty, per prendere le difese mie e di mio fratello nei confronti dei Cicerone. Ciò nonostante lui voleva tenere unita la sua famiglia, perlomeno i propri fratelli». Insomma, Ciccio “Tabacco” era occhi della popolazione «a tutti gli effetti un membro importante del clan Mancuso, anche perché le divisioni tra i vari rami rimanevano interne alla famiglia; dopo 15 anni di carcere, ha cercato di trovare i propri spazi e dal carcere è uscito più ’ndranghetista di quanto già non lo fosse».
LUIGI MANCUSO IL “PACIERE”
Sulla figura dell’altro zio, Luigi Mancuso, il pentito racconta che questi «era sicuramente per la pace, ma se qualcuno andava a toccare i suoi interessi, era capace di risolvere una situazione con la forza anche in poco tempo ed anche a Vibo Valentia, anche perché i Lo Bianco erano furbi, facevano i loro interessi, hanno fatto i soldi, ma non vanno mai allo scontro, attendendo che i loro rivali vibonesi vengano arrestati dalle Forze dell’Ordine oppure fatti rientrare nei ranghi dai Mancuso. Questo è l’atteggiamento di tutti gli appartenenti alla ndrina Lo Bianco-Barba-Pugliese di cui conosco anche direttamente molti esponenti».
“SCARPUNI” E IL PRESUNTO ACCORDO CON LO STATO
Tra le righe del verbale, spunta poi un altro clamoroso retroscena svelato dal collaboratore. Luigi Mancuso avrebbe intimato il nipote Pantaleone, alias “Scarpuni”, ad allontanarsi prima di essere arrestato «perché sapeva chiaramente che gli avrebbero dato l’ergastolo». Dietro le quinte della faida che a cavallo tra il 2011 e il 2012 insanguinò il Vibonese c’era proprio lui, “Luni Scarpuni”. Da una parte sosteneva i Patania di Stefanaconi, dall’altra era ricercato dal gruppo di fuoco dei Piscopisani che voleva ucciderlo e tagliargli la testa. Prima del sanguinario clan di Piscopio è arrivata però la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e Scarpuni si trova ora recluso all’ergastolo e condannato al 41bis.
«Io chiesi a Luigi – rivela il pentito – perché non aggiustavano la sentenza che lo riguardava ma Luigi mi diceva che non era possibile perché lo stato di cose derivava da una precisa scelta di “Scarpuni”. Quest’ultimo, per detta di mio zio Luigi, aveva trovato un accordo, presumo con lo Stato, in base al quale se lui si fosse fatto arrestare avrebbe evitato che gli venisse tolto il figlio (in considerazione anche della vicenda della Buccafusca», vale a dire la defunta moglie di Pantaleone Mancuso, arrivata a un passo dalla collaborazione con la giustizia. Tornata a casa dopo aver riempito e ma non firmato il verbale in cui dichiarava di voler entrare nel programma protezione testimoni, morì all’ospedale di Reggio Calabria dopo aver ingerito acido muriatico.
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